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Selinunte, Santuario della Malophoras, Testa femminile con copricapo (polos), VI sec. a.C.

I Misteri di Demetra

Eques Renatus a Spica Aurea

 

Questo è un ampio stralcio d’una conferenza che l’Autore ha tenuto due settenni fa, nel 1985. Sebbene consapevole della modestia dello studio, soprattutto in certe ipotesi etimologiche, nondimeno ritiene che quanto si narra non sia del tutto consueto leggerlo. A quei pochi interessati lo dedica col cuore.

«Beato colui che, dopo aver visto simile cosa, arriva sotto terra: egli sa della fine della vita e del suo inizio dato da Zeus»
Pindaro, Pitiche

In età cristiana ‘mistico’ e ‘mistero’ indicano la volontà dell’uomo di sciogliersi da ogni legame con la natura. La ‘mistica’, termine che deriva da ‘mistero’, indica l’atteggiamento di chi fugge il molteplice e tende all’Uno. Per i greci la parola Mysterion non implica idee che tendano a distanziarsi dal mondo della natura. Per l’ateniese del V secolo la parola ‘mistico’ rievoca l’atmosfera di una festa notturna con tutti i suoi particolari ben sensibili: l’esperienza ‘mistica’ è una determinata esperienza festiva.
Nel calendario festivo attico la parola mysteria, che indica al plurale l’insieme delle celebrazioni, compare due volte: nel mese autunnale Boedromion e nel mese Primaverile Anthestherion. Essa compariva senz’altra specificazione poiché i mysteria riguardavano esclusivamente le celebrazioni in onore di Demetra e Persefone. Il termine stesso –mysteria– può pertanto introdurci all’essenza di tali Misteri.
La radice del termine mysteria, come dei termini mystes e mystikos, è costituita dal verbo myein che significa ‘iniziare’: dunque il mystes è l’iniziato, e mystikos ciò che concerne l’iniziazione. Tuttavia il verbo myein è un’ulteriore formazione da myein, che indica il ‘chiudere gli occhi o la bocca’. Ciò indica che nei mysteria, ovvero durante le iniziazioni, si svolgeva una cerimonia consistente nel chiudere gli occhi, il cui contenuto doveva restare segreto, ‘chiuso in bocca’ dell’iniziato. Il calco latino del termine mysteria è in–itia: cioè l’‘andar dentro’, ‘entrata’.
Dunque i mysteria sono una celebrazione dell’ingresso nell’oscurità. Oscurità triplice per l’iniziando, immerso nella propria intimità, velato e nel buio delle notti sacre. E con mysteria s’intendono esattamente le celebrazioni e le iniziazioni alla sapienza «demetria» mediante triplice oscurità.
D’altronde sempre a Demetra e alla figlia Persefone erano dedicati gli anakalypteria, il cui significato è altrettanto chiaro: anakalyptein significa ‘scoprire’. Nell’insieme le due iniziazioni costituiscono un’unità complementare costituita dal ‘velamento’ e dal ‘disvelamento’.
A questa duplice unità rinvia pure la figura di Demetra: consideriamo per un attimo i nomi che nel ceppo linguistico indoeuropeo designano la divinità: il Deva e il Dyaus indù, il Dios e poi Zeus greco, il Maz–Da persiano, il Divus latino da cui deriva il nostro termine Dio, derivano dal sanscrito
DIV: ‘splendente’, da cui dyaus: ‘cielo’. ‘giorno’. Se consideriamo inoltre la pronuncia sanscrita del DA, così fortemente palatale e perciò prossima al vibrante Ra di origine più antica –e di cui rappresenta forse una cristallizzazione– al novero di termini indoeuropeo possiamo aggiungere il Ra egizio e il Rha maya che indicano entrambi la divinità solare.
Ciò permette di supporre che in epoca ‘atlantica’ tale radice indicasse la luminosità del divino. Dopo la catastrofe atlantidea un gruppo si rifugiò verso ovest, in America centrale, e un altro verso oriente, in Africa. Da qui, essendo il luminoso un fenomeno universale nell’esperienza umana. La radice Ra si propagò mutandosi in Da, Za, Jha e così via. Alla luce di queste considerazioni è evidente il significato di Daimon: ‘demone’ in lingua greca, da intendersi come ‘luce una’ (monos), ‘luce individuale’; ovvero quell’unica luce che, dopo l’esperienza della soglia, guida l’iniziato. De–meter significa dunque la ‘madre luminosa’ (meter, mater). Nell’arte greca viene infatti raffigurata con una torcia in mano, vestita però d’abiti scuri: ancora una volta si allude alla duplice natura del velamento e del disvelamento.
Le fonti che descrivono l’iniziazione ai misteri di Demetra sono di numero esiguo, essendo tale iniziazione indicibile e assolutamente segreta. Ma l’essenza di tale iniziazione si rivela celata con un linguaggio occulto presso parecchie fonti dell’epoca. La fonte principale è l’inno omerico a Demetra, che sviluppa in forma di racconto mitico il corteo di archetipi che costella la figura di Demetra, dicendoci parecchio intorno ai misteri ad essa connessi. Le figure principali di cui narra questo mitologema sono Demetra stessa e la figlia Persefone, note ai romani come ‘Cerere’ e ‘Proserpina’.
Il racconto s’avvia con il ratto di Persefone, portata agl’inferi da Ade, il sovrano del regno delle ombre. La fanciulla –così i Greci la chiamavano, usando il termine Kore– invocò l’aiuto del padre Zeus, ignorando che proprio Zeus l’aveva promessa al fratello Ade. Nessuno, esclusi Helios –il ‘sole’– ed Hekates –la ‘luna’– udì però la sua invocazione. Ma la sentì anche la madre Demetra che si levò la veste oscura e volò come uccello sopra la terra alla ricerca della figlia. Dopo lungo vagare, accompagnata da Hekate, Demetra apprende dal Sole il nome del rapitore.
Allora la dea, adirata contro Zeus, scese tra gli uomini e andò vedere le loro opere. Giunta a Eleusi si rese irriconoscibile e venne accolta come governante del figlio del re, il piccolo Demofonte. Col volto velato e una veste oscura, Demetra accudiva il piccolo e questi cresceva senza mangiare e senza bere. Ogni notte la dea esponeva il bimbo alla forza del fuoco come un tizzone destinato a diventar fiaccola: con questo nutrimento il bimbo sarebbe divenuto immortale. Però una notte la madre entrò nella stanza e gridò, a vedere il figlio nel fuoco.
Demetra s’infuriò contro la stoltezza e l’ignoranza del genere umano: il bimbo era condannato a subire il destino dei mortali a causa dell’avventatezza materna. La dea comandò che si erigesse un tempio in suo onore e andò via dopo aver ripreso la sua originaria grandezza: inondò di luce la notte. Appena il tempio fu pronto ella sedette lì, lontana dagli dèi, e impedì che un solo seme germogliasse dalla terra, essendo la dea della fecondità e delle messi. Invano Zeus cercò di moderare l’ira della dea e infine fu costretto a inviare Hermes nel regno di Ade affinché riconducesse la Kore Persefone alla madre.
Ade tuttavia, mettendole un chicco di melograno in bocca, impedirà a Persefone di soggiornare sempre nel mondo luminoso: ella dovrà passare un terzo dell’anno nel mondo degli inferi, sia pure nei panni della regina. Ricondotta alla madre, questa e la sua Kore passano il giorno insieme mentre la terra si ricopre del frutto dei campi. Infine la dea si reca dai re di Eleusi e mostra loro i sacri riti che non è permesso tradire. Questo, in sintesi, è quanto l’inno omerico narra. Un racconto orfico sostiene che la vicenda si sia svolta in Sicilia, la terra cara a Demetra, presso Siracusa, dove sfocia la fonte Ciana, la fonte ‘oscura’.
Nell’inno omerico si nota il continuo sistema di velamenti e disvelamenti che caratterizza la figura di Demetra; ella irradia luce mentre cerca la Kore e quando non può più fingersi semplice governante. Mentre s’oscura quando scende in terra adirata e nutre il piccolo Demoofonte. Colpisce il singolare modo, per niente antropomorfo, di nutrire il piccolo immergendolo nel fuoco. Demetra lo nutre affinché diventi immortale, lo prepara a un destino non umano. In tal senso Demetra è la madre che può concepire il divino dalla natura. Si nota inoltre che la Kore incarna due forme d’esistenza diverse: la fanciulla presso la madre appare come vita, la fanciulla presso l’uomo appare come morte. Il ciclo di esistenze della Kore sintetizza perciò le due esperienze polari dell’esistenza umana in un continuo divenire dall’una all’altra e viceversa. È implicito dunque che il mistero iniziatico concerna la duplice esperienza che subisce la Kore ed è raffigurato anche nel singolare svezzamento che subisce Demoofonte mediante la forza del fuoco.
Sui rituali e sui contenuti misterici dell’iniziazione le fonti dell’epoca dicono ben poco: nessuno che fosse stato iniziato avrebbe allora svelato qualcosa e chi, per caso, pur non essendo iniziato fosse stato in possesso di qualche notizia, non avrebbe certo corso il rischio d’essere processato come capitò a Eschilo. Tuttavia, sebbene in modo ellittico e allusivo, qualcosa vien detto: Pindaro scrive al proposito: «Beato colui che, dopo aver visto simile cosa, arriva sotto terra: egli sa della fine della vita e del suo inizio dato da Zeus». Pindaro dice qualcosa d’importante; ci dice che l’esperienza fondamentale dell’iniziato consisteva nel veder qualcosa. Qualcosa concernente i misteri della vita e della morte. Cicerone sostiene che in questa esperienza si conoscevano i principi della vita e della morte.
Una tavola votiva c’informa che il complesso di rituali trovava il suo apice nel Telein, nel ‘condurre al telos’, ovvero allo ‘scopo’, e che il telos si raggiungeva per epopteia, per una ‘suprema visione’ e comprensione che in nessun caso si raggiungeva con la prima iniziazione. A questa visione guidava lo «ierofante» (Jerofante: ‘colui che mostra il sacro’) mostrando qualcosa.
Quant’altro sappiamo non deriva da fonti greche, ma da fonti cristiane non vincolate ovviamente da alcun segreto. Ed è Ippolito, un padre della chiesa, a dirci cosa mostrasse lo ierofante, naturalmente ironizzando sui misteri di Demetra. Egli dice che agli epoptai, cioè a coloro che avendo superato il primo grado iniziatico, erano pronti ad affrontare il secondo, lo ierofante mostrava «il grande e meraviglioso e Perfetto mistero, una spiga di grano recisa» e che si recitava la formula sacra «Piovi, porta frutto». Anche Clemente Alessandrino, altro padre della chiesa, riferisce la formula confessionale ironizzando sul mistero, poiché non poteva sapere che non la formula era segreta, ma il contenuto dell’epopteia, della ‘visione’; e, come vedremo, tali formule avevano senso solo in relazione a questa visione.
Veniamo all’essenza dei misteri, cercando di tralasciare i vari riti e accentrando la nostra attenzione sull’epopteia, sulla ‘visione’. Sappiamo anzitutto che poteva essere iniziato chiunque parlasse la lingua greca e fosse puro d’ogni peccato di sangue: uomini e donne ugualmente. Ciò, in tempi in cui le conoscenze iniziatiche erano patrimonio esclusivo di certe caste, come la sacerdotale o la guerriera, non è fatto da trascurare. Era dunque un’iniziazione sovranazionale, non legata cioè a un qual sia ceppo etnico e a un qual sia ordine sociale.
Pertanto non interessava ad alcuno la provenienza etnica e sociale del mystes, di colui che aspirava all’iniziazione. In secondo luogo, ma questa è la causa reale delle precedenti norme, si chiedeva all’iniziato d’identificarsi nella dea Demetra rinunciando alla propria identità. Più o meno secondo la formula di Paolo: «Non io, ma Cristo in me». L’iniziando rinunciava all’identità contingente, anagrafica,  per conseguire la conoscenza della vita superindividuale.
Nei «piccoli misteri» primaverili l’iniziato doveva nella triplice oscurità abbandonar la propria identità per cercar la dea. Infatti in Siracusa gli iniziandi vestivano di porpora e portavano le fiaccole; e anche lo ierofante vestiva il porpora che caratterizza il manto della dea. L’imperatore Gallieno, che aveva superate entrambe le iniziazioni, si appellò nelle proprie monete al femminile, come «Galliena Augusta». E vestiva di porpora anche Empedocle, il filosofo agrigentino che primo concepì il mondo formato dai quattro elementi –terra, acqua, aria, fuoco– i quali, come vedremo, costituiscono il cardine dell’epopteia; della ‘visione’ che l’iniziato esperiva.
Il secondo grado iniziatico –i "grandi misteri"– richiedeva una potente capacità di destare e far vivere le immagini nella propria coscienza. Nei tempi più antichi, in Sicilia, i grandi misteri venivano celebrati in epoca autunnale, nelle notti di luna calante; poiché il buio –in cui si svolgevano sia i piccoli che i grandi misteri– stimolava, grazie anche ai riti, la coscienza immaginativa dell’iniziando; e non ci si accontentava di ripetere il triplice velamento della piccola iniziazione.
Quanto segue è una ricostruzione più fedele e più tipica possibile del viatico che si schiudeva alla coscienza immaginativa dell’iniziando: si conduceva l’epoptai su una radura in terra battuta per ricordargli lo stato spoglio della terra dopo l’ira di Demetra. Si costituiva attorno all’epoptai un circolo di iniziati e al centro, assieme all’epoptai, vi erano lo ierofante e un assistente, separati da un cunicolo nel terreno.
Gli iniziati che facevano cerchio spegnevano le fiaccole e sul gruppo cadeva il silenzio della notte. Lo ierofante gridava: «Sia interrato come i morti, vivo! Vivo venga interrato come i morti!». Gioverà dire che l’epoptai non era assolutamente preparato precedentemente ad affrontare una simile prova: la prima prova che doveva affrontare era proprio questa: sostenere con coraggio l’impatto che l’idea d’esser sepolti provocava in lui. In certo senso doveva affrontare il destino del seme.
Un tale choc, potremmo dire, destava in lui una potente carica immaginativa: e immaginava di farsi avanti per affrontare la sepoltura; sentiva che nel cunicolo in cui era costretto veniva calata una pesante pietra; voi sapete che la morte rituale costituiva l’essenza d’ogni iniziazione. Vedeva quindi che posto in questo cunicolo la terra intorno a lui aumentava temperatura sino a infiammarsi d’una luce fortissima, incolore e abbagliante, la cui azione gonfiava il terreno e il cunicolo ed egli si sentiva investito in pieno da questa energia luminosa che tramutava la buca e il terreno circostante via via in una montagna e trasfigurava il suo corpo in luce.
Egli sentiva di non essere più dotato di corpo, ma costituito unicamente di calore e luce e sentiva il suo esser–calore e luce sollevarsi dalla montagna e spaziare nell’etere. Esperiva quindi di non esser più luce e calore, ma solo etere sottoposto all’azione del vento. Egli vedeva sotto di sé la terra rimpicciolirsi: il gruppo di iniziati e lo ierofante divenivano un piccolo cerchio e la stessa montagna da cui era asceso si riduceva a una piccola gobba. Vedeva la regione come un triangolo nel mare e si sentiva vento aria nuvola. Dopo questa impressione si sentiva cadere dalla nuvola in forma di goccia, e condensarsi sempre più, sino a precipitare nella fonte d’Aretusa, epifania demetria per i siracusani, e qui sapeva d’essere un pesce dorato consacrato alla dea. Ciò spiega perché gli iniziati non mangiassero triglie.
L’epoptai era talmente immerso in ciò che vedeva da essere incapace persino d’esercitare lo stupore, legittimo, che ogni uomo proverebbe a una simile esperienza. Bastava dunque che un grano di stupore s’inoculasse in lui per aprire gli occhi e ciò che ora vedeva a occhi aperti non era meno stupefacente: egli si trovava dinanzi allo ierofante, e non nel cunicolo, e lo ierofante gli mostrava un chicco di grano tenuto fra le dita della mano destra. Non di rado lo ierofante sorrideva ammiccando, conscio di quale forza immaginativa si fosse sprigionata nell’epoptai.
E l’epoptai si rendeva conto che quanto aveva visto si sprigionava dal seme, ovvero che ciò che aveva visto era anche nel seme. L’iniziato si avvedeva di condividere il destino del seme. Una tale esperienza, voi comprendete, è logicamente indicibile: narrandola l’iniziato non poteva esser considerato altrimenti che pazzo. Il nucleo di tale esperienza è racchiuso nella seguente frase di Eraclito: "La morte del fuoco è la vita dell’aria e la morte dell’aria è la vita dell’acqua". Difatti l’iniziato esperiva la morte del fuoco, la vita e la morte dell’aria, la vita e la morte dell’acqua. Quest’ultima è naturale causi la vita della terra ed è implicito che la morte della terra avvii nuovamente il ciclo.
Con questa visione l’iniziato esperiva la propria continuità, la continuità dell’io superiore nel trapassare degli stati. Nel divenire, nel nascere e perire, nel perire e nascere di ogni elemento, esperendo la propria continuità, gli si schiudeva, gli si disvelava la conoscenza dell’io superiore, viveva quella fase che intercorre tra la morte e una nuova nascita in chiave immaginativa. La esperiva, evidentemente, in potenza: come il seme è una pianta in potenza. Così l’iniziato s’avvede di portare il germe d’una esistenza superindividuale che trapassa di corpo in corpo, di stato in stato. Ho detto che s’avvede di «portare», ma sarebbe più esatto dire «s’avvede d’essere portato»; s’avvede insomma che la sua esistenza in quel corpo non è che uno stato, una forma incarnata dall’io superiore.
Alla fine di questa fase dell’iniziazione gli iniziati dicevano in coro: «Piovi, porta frutto!». Per l’epoptai il senso di tale invocazione era palese; avendo vissuto immaginativamente il condensarsi dell’etere nell’elemento fluido, ovvero: avendo vissuto in prima persona il «piovere», egli sapeva che a esso corrisponde una nuova nascita nel mondo sensibile, mentre il «portar frutto» corrisponde alla morte terrena e alla nascita nel mondo sovrasensibile poiché, come dice Giovenale (12, 14): «Se il granello di frumento caduto in terra non muore. resta solo; se invece muore fruttifica abbondantemente».
«Piovi!» è dunque l’avvio del divenire nel mondo sensibile. «Porta frutto!» l’avvio dell’essere nel mondo spirituale. E così l’iniziato diventava consapevole che la propria morte nel mondo sensibile corrispondeva a un «fruttificare» nel mondo spirituale, così come la morte del seme nel sottosuolo fruttifica alla luce, giacché gli iniziati, dicendo «Piovi, Porta frutto!» rivolgevano una triplice invocazione: a Demetra, al seme che lo ierofante teneva in mano e anche allo stesso epoptai, essendo egli stesso identificato in Demetra, sì che avrebbe potuto esclamare come Paolo: «Non io, ma il divino in me».
Egli veniva dunque iniziato a ciò che potremmo definire «il profondo abisso del seme», per dirla simbolicamente; veniva iniziato alla dottrina delle reincarnazioni.
Lo ierofante innalzava la spiga dopo la frase rituale «piovi, porta frutto», che in greco suona cosi: "ye, kie!". È comprensibile che Pindaro dicesse: «Beato colui che, dopo aver visto simile cosa, arriva sotto terra: egli sa della fine della vita e del suo inizio dato da Zeus». Notate che Pindaro dice: «Sa della fine della vita e del suo inizio» e non il contrario, poiché la «grande iniziazione» che culminava nella visione, introduceva l’iniziato proprio al ciclo che intercorre fra morte e nuova nascita. Come vedete, «non dicendo», le fonti dicono parecchio sui misteri di Demetra: anche l’inno omerico, descrivendo il rituale cui è sottoposto Demoofonte da Demetra, da un lato allude alla visione, dall’altro la stimola.
L’iniziato ai misteri di Demetra era colui che nei grandi misteri invernali vedeva le due soglie e faceva esperienza della soglia divina allorché esperiva in sé il germe della vita superindividuale. Ciò spiega perché dopo la visione gli venisse annunciata la nascita d’un fanciullo divino. Gli si diceva, mostrandoglielo: E questo è Jacco, colui che ha da venire. Jacco, il dio venturo, mostrato in prossimità del solstizio invernale, per l’iniziato aveva un duplice significato: rappresentava al contempo sia il germe della vita superindividuale che albergava nella sua anima, sia un evento spirituale venturo. Inoltre rappresentava le due soglie. Per l’iniziato Jacco aveva insomma un duplice volto e cosi difatti veniva raffigurato: Atenagora, un apologeta cristiano, ci ha conservato una tradizione orfica secondo cui la creatura di Demetra aveva quattro occhi e due volti (Ath., cap. XX). In un’iscrizione dell’Asia minore si parla di una Tetrakore. Kore significa, oltre che ‘fanciulla’, anche ‘pupilla’: perciò tetrakore è un essere dal duplice volto. Per avere un’idea di questo essere dobbiamo rivolgerci allo Janus latino, il ‘Giano’ bifronte.
Ma Jacco è in primo luogo il divino concepito da Demetra nella natura, nell’iniziato stesso. Per un’altra serie di documenti e considerazioni, di cui per motivi di tempo non vi ragguaglierò, Jacco può essere associato a Dioniso–Bacco, il dio del vino che muore lacerato, concepito come un evento spirituale venturo. Il che rinvia nuovamente al Cristo. L’epoptai esperiva dunque di vivere il destino del seme, di subire il suo destino superindividuale. Non poteva esserne redento poiché questo compito spettava a Jacco, il dio venturo.
Il rituale iniziatico si concludeva con la seguente formula: "Ho digiunato, ho bevuto il Kykeion, ho preso ciò dalla cista, l’ho maneggiato, l’ho posto nel canestro e dal canestro nella cista". Il digiuno e la libagione del kykeion, bevanda a base d’orzo, sono i primi atti che compie Demetra sulla terra, in vesti umane. Ripetendo tali atti l’iniziato si identificava con la manifestazione terrena della dea. Ciò spiega il seguito della formula: in lui parlava il divino, il germe della vita superindividuale, l’io superiore, non l’io contingente. Ed è l’io superiore che prende dalla «cista», «maneggia», «pone nel canestro» –cioè nel mondo sensibile– e «dal canestro nella cista» –cioè in ciò che caratterizza lo stato di morte nel mondo sensibile– l’io contingente e il corpo fisico.
E così l’epoptai dopo l’iniziazione tornava alle proprie abituali attività in attesa dell’evento spirituale venturo, disposto al disvelamento di questo evento. Per concludere con le considerazioni d’apertura sul termine ‘mistico’, possiamo dire che in epoca cristiana il mistico è colui che fugge il molteplice e cerca l’Uno; nei misteri di Demetra il ‘mistico’, l’iniziato, è colui che nel molteplice trova l’Uno. Vivendo il «destino del seme».

Coeli Aula,
25–28/12/1985

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