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René d'Anjou, «Le Livre des tournois», 1460-65, Parigi, Bibliothèque nationale, Ms. fr. 2695

Pierre Dujols

La Cavalleria

 

Pierre Dujols (22 marzo 1862- aprile 1926), proprietario della parigina «Librairie du Merveilleux», frequentata da Fulcanelli, Guénon, Jules Boucher, Oswald Wirth, Schwaller de Lubicz, Paul Vulliaud. Ranque, nel suo La pietra filosofale segnala che «Magophon», questo è lo pseudonimo di Pierre Dujols, ha cognizioni sulla pratica dell’opera alchemica. In stretto rapporto anche con Papus, che chiamava «caro Maestro», Dujols era l’animatore dell’Ordine del Tempio Rinnovato creato da Guénon. Il manoscritto che pubblichiamo è incompiuto ed è registrato nella Biblioteca di Lione al n. 5491. La redazione è a cura di un collettivo di Grenoble, e la traduzione è di Leonardo Bigliocca.

 

La storia non ha visto nella cavalleria altro che un ordine militare destinato all’esercizio dell’arte del combattimento. Essa non ha percepito altro che la forma esteriore, l’aspetto fisico dell’istituzione. In realtà la Cavalleria era un’organizzazione assai complessa fondata sul Ternario e comprendente corpo, anima e spirito.
Lo spirito era costituito da un areopago di alti iniziati, sacerdoti–filosofi eredi della Saggezza e della Scienza dei Magi egiziani, di Pitagora, Platone e dei Druidi celti. Conservavano nel loro sodalizio le tradizioni misteriche dell’antichità e davano impulso alla struttura tramite i trovatori e i trovieri. Costoro, i bardi, i menestrelli e i giocolieri costituivano il corpo mediano che serviva da articolazione fra le due entità estreme. Ricevevano dall’alto la dottrina e la irradiavano verso il basso per mezzo dei poemi e delle canzoni allegoriche il cui senso recondito spesso sfuggiva all’uditorio composto di uomini in cotta di maglia ed armatura, materia rude e grossolana, baluardo del dogma, i quali prendevano alla lettera le belle storie dei poeti e vi attingevano le virtù e l’eroismo indispensabili all’azione secolare che era demandata ai guerrieri della Corporazione.
Sotto un suo aspetto – dunque – la Cavalleria era dunque ternaria. Gli storici non hanno colto altro che l’involucro corazzato. Involucro che aveva necessariamente il colore proprio dell’ambiente in cui si era sviluppato, cioè quello cristiano. È una legge di natura. Ma il cristianesimo non era allora ciò che è oggi, e in tutti i casi non esercitava che un’azione relativa sulla società civile. Non si perda di vista che nel undicesimo secolo la Chiesa affrontava con grandi difficoltà il contenimento del brigantaggio dei tempi feudali. L’Europa era un luogo infido e le invasioni barbariche avevano alterato profondamente i costumi. L’autorità ecclesiastica imponeva con autorità ai potenti baroni la "tregua di Dio", ma essa doveva lasciare il passo a questi leoni scatenati lasciando loro tre giorni alla settimana per compiere le loro nobili rapine. La massa non era affatto permeata del fermento teologico di Roma e conservava sempre i costumi, gli usi e le credenze pagane. Gesù Cristo non era altro che un dio in più, superiore senza dubbio agli dei dell’Olimpo che aveva vinto e detronizzato, ma al tempo stesso incomprensibile agli adepti della nuova fede.
È dunque impossibile considerare la Cavalleria come una creazione realmente ortodossa: era piuttosto un’estensione degli ordini equestri greci e romani e tutto tradiva, del resto, le origini aliene alla religione che si estendeva progressivamente nel continente. Il presente non è costruito che dal passato, come il futuro dal passato e dal presente: non si crea un mondo con un semplice colpo di bacchetta magica. Le cose si evolvono lentamente e si succedono per filiazione e mutano d’aspetto nell’ordine dei secoli. Le generazioni attuali non rassomigliano alle generazioni primitive che le generarono.
Questo lavoro di trasformazione che spesso sfugge allo storico deve essere preso in esame dal Filosofo. A questo studio profondo una pleiade di scrittori, delusi dall’artificiosità delle opinioni convenzionali che sono prevalse fino ai nostri giorni, hanno consacrato il loro lavoro studiando le radici intime delle leggende, scavando fra le rovine, sollevando la polvere secolare, riesumando, fra la meraviglia dei Pontefici, una Cavalleria completamente diversa da quella tradizionale.
Questi autori come Ugo Foscolo, Gabriele Rossetti, E.J. Délecluze in Dante Alighieri: la Vita Nova, Philaréte Chasles in Galileo Galilei, la vita e il processo, Eugène Aroux in La Commedia di Dante, Dante eretico, Chiave della Commedia anticattolica di Dante Alighieri e anche Antony Rhéal, al quale bisogna unire Grasset d’Orcet, hanno proiettato la più viva luce su questo aspetto oscuro della vita medievale, e grazie alla chiarezza da loro fatta ci è consentito di ricostruire la fisionomia reale dell’ordine cavalleresco, dei suoi paladini, dei suoi trovatori, delle gesta, dei loro canti e dei racconti leggendari che costituiscono il ciclo del Graal.
La caratteristica della Cavalleria, secondo i classici, è la galanteria, l’amore dei prodi per la donna. Le celebri corti d’amore di Romanin e d’altri, le leggi che le reggevano, le sentenze e le procedure che emanavano sono altrettante prove dello spirito erotico [nel senso di Eros, N.d.T.] dell’istituzione. Se si consultano le Pandette di questi singolari tribunali appaiono molti punti oscuri. È difficile e anche impossibile armonizzare la virtù di queste nobili figure con le sanzioni poco onorevoli che le colpiscono e le avviliscono. Bisognerebbe dunque ammettere che quello fosse un tempo dove non v’erano più dei costumi e sarebbe proprio quel tempo che noi proporremmo quale modello?
L’amore non è sempre una virtù, e si è definito i nostri cavalieri persone virtuose. Ci si spieghino gli epiteti infamanti proferiti nelle assisi d’amore e si concilino, se ne si è capaci, con l’onore coniugale. Questi uomini corazzati, ai quali niente poteva resistere, tenevano così di poco conto il sangue di una stirpe di cui si mostravano così gelosi e abbandonavano il loro talamo alle peggiori avventure?
L'Amore! Ma è sul valore di questa parola che vi sono posizioni divergenti. L’amore cavalleresco, divenuto prototipo di purezza, era l’inclinazione volgare che spinge un sesso verso l’altro, o forse non vi era, al contrario, in questo termine un’intenzione mistica, aliena al dolce commercio dei cuori e dei sensi? Questa è l’opinione che incomincia a prevalere e che noi appoggiamo: essa è avvalorata da prove concrete.
Rossetti, per primo, costruì la sua dimostrazione in questo senso in cinque grossi volumi per oltre duemila pagine intitolate Il Mistero dell’Amor platonico del Medio Evo, derivato dai Mysteri antichi. L’erudito professore di letteratura italiana, nato a Gondrise, malgrado la violenza che la verità faceva ai suoi sentimenti di cattolico s’inchinò di fronte ai fatti.
«In questa opera monumentale di un’erudizione storica e letteraria immensa – dice Délécluze – l’esule italiano sviluppa il concetto di amore platonico o allegorico che si collega alle origini dei misteri greci e alla setta dei Sufi dell’India».
L’autore di Dante Alighieri e la Poesia amorosa, che è al di sopra di qualsiasi sospetto per la sua posizione di astrazione dai conflitti, riconosce che la poesia erotica dei trovatori proviene dalla stessa sorgente. Egli la ritrova presso la grande sacerdotessa di Mantinea, Diotima di Megara, che aveva iniziato Socrate alla Religione d’Amore. Socrate vi avrebbe ammesso Platone, l’Accademia avrebbe diffuso e, passando per Alessandria, avrebbe fatto la sua apparizione in Italia e in Francia con la comparsa dei seguaci di Iside e dei Filosofi nella città di Roma. In altri termini la Religione di Amore sarebbe stata la stessa delle Iniziazioni antiche.
Ma pervenne nelle nostre zone solo per quella via? Non vi era già proprio presso di noi [in Francia, N.d.T.] un fuoco acceso al medesimo culto? Grasset d’Orcet, la sfinge perspicace che ha soluto l’enigma del Sogno di Polifilo, ci fornisce la spiegazione di un testo steganografico il cui senso aveva sino ad allora sfidato le capacità dei migliori decrittatori: «Il Druida non ha altro culto che il vero solo amore. Quest’ultimo è la chiave che apre alle anime il cielo ed è il signore del mondo; esso è il maestro che fece il sole nel cielo che domina come vero unico signore. Il Massone tiene per principio universale la Nube dalla quale emerge il Principe della Verità unico regnante».
Ci si sorprenderà nel leggere il termine "massone" che sembra un anacronismo fra Filosofi, Druidi e cavalieri medievali; ma Grasset d’Orcet ci trasporta giustamente verso queste epoche. Egli esamina le associazioni di Architetti e di Costruttori di Cattedrali collegate verosimilmente ai pontefici pagani, o costruttori di ponti. Più avanti estende anche le ramificazioni massoniche e ci rivela l’esistenza di una Cavalleria della Nube. Questa notizia, che ci evocherebbe l’infima letteratura di certi pseudo-scrittori, corrisponde invece ad un concetto di alta metafisica nel dominio della Gnosi. La Nube di cui si tratta è l’Inconoscibile, il Pater Agnostos degli esoteristi. E potrebbe essere ancora qualcosa d’altro perfettamente inaccessibile e che i Filosofi ermetisti ben conoscono, ma che esula totalmente dalla nostra trattazione.
«Si noterà in questo testo – dice Grasset d’Orcet – il termine néphès, n e j e l h (che traduce con nube o oscurità come l’esige la lingua greca). Ne deriva il nome di due celebri poemi, i Nibelunghi e le Nuvole di Aristofane. La Nube o il Non-conosciuto, principio universale, era in effetti il dio massimo della massoneria greca così come di quella moderna, la nube che abbracciava Ixion e che i greci definivano "avviluppata" con una testa di bove quale geroglifico. Vediamo, del resto che questa professione di fede, che i Massoni dicono di avere per i Druidi, era conforme perfettamente a quella di Platone». E Platone affermava che l’Amore è il più antico Dio del mondo.
C’è da chiedersi se M.G. D’Orcet indugi in un errore necessario per la propria ardita tesi. I Massoni attuali che si piccano di detenere le vere tradizioni la pensano in maniera differente? Cediamo loro la parola: «Dimostriamo a noi stessi – scriveva il Fr. Bailleul in un discorso pronunciato al Grande Oriente il 19 ottobre 1847 – dimostriamo a noi stessi di possedere la dignità per essere i continuatori di questa venerabile istituzione che ha attraversato così tanti secoli sulla scia del nostro fratello Platone». Ma il Fr. Bailleul avrebbe potuto abusare – forse – delle patenti di nobiltà dell’Ordine di cui è fiero di appartenere.
L’americano Mackey, autore di opere considerevoli sull’origine della massoneria, dichiara di aver ritrovato nella sede originale dell’Accademia Platonica in Firenze, fondata nel 1480, gli affreschi murali originali ornati con simboli pitagorici. Notiamo a margine che i maestri, dopo Dante, nelle scienze d’amore, Ariosto, Petrarca, Tasso, Boccaccio, Michelangelo, Gravinne e Marsilio Ficino, il grande umanista, sacerdote e canonico della chiesa di Roma, ne facevano parte. Quest’ultimo ci ha lasciato una testimonianza scritta della natura del suo credere; si legge in una delle sue opere, una sorta di Banchetto, questa nota singolare per la penna di un ecclesiastico: «Che lo Spirito Santo, amore divino che ci è stato insufflato da Diotima, illumini il nostro intelletto». Non è più il Paràclito secondo ortodossia.
È pur vero che tutte le fonti che attingono più o meno all’Arte del Costruire o a certi gruppi possono apparire sospette o almeno interessate. Si dovrà ricusare quelle della Storia ufficiale?
Henri Martin, studioso assai autorevole, tratta lui stesso di Massoneria e di Cavalleria e da questa al Druidismo. Riconosce che il romanzo del Santo Graal ne è l’espressione autentica. Più avanti vedremo la connessione fra la Tavola Rotonda e i misteri greci. Ecco il testo dello storico Henri Martin: «Nel Titurel la leggenda del Graal raggiunge la sua ultima e splendida trasfigurazione sotto l’influenza delle idee che Wolfram [von Eschenbach, N.d.T.] sembra aver diffuso in Francia e in particolare fra i Templari del Meridione di Francia (gli Albigesi). Un eroe, di nome Titurel, fonda un tempio per ospitare il Sacro Calice ed è il profeta Merlino che dirige questa costruzione misteriosa, iniziato che fu per mezzo di Giuseppe di Arimatea in persona al progetto del tempio di Salomone. La Cavalleria del Graal diviene così la Massenìa, ovvero una massoneria ascetica i cui membri si denominano Templisti, e si può cogliere qui l’intenzione di collegarsi ad un centro comune espresso da questo tempio ideale, l’Ordine dei Templari e le numerose confraternite di costruttori che rinnovarono a quel tempo l’architettura del Medioevo. Si intravedono dunque bene degli spiragli su ciò che si può definire la storia di questo periodo, assai più complessa di quanto non la si creda comunemente».
G. D’Orcet, che ha consultato moltissimi testi su questo problema, ci assicura che «il numero di opere che trattano dell’antica massoneria è prodigioso e non meno prodigioso per la varietà delle forme, giacché perfino l’ordine dei Gesuiti vi ha apportato il suo contributo, e per di più dei più completi, con l’opera del gesuita Villalpando sul tempio di Salomone».
Che la cavalleria del Medioevo arrivi a noi originandosi dalle iniziazioni greche e druidiche, ciò non pare più tanto discutibile. Ma nel caso in cui essa derivasse proprio specificatamente da un’origine celtica, si potrebbe addirittura arrischiare a considerare la sua origine ancor più antica: Artù, il Re-Cavaliere e «penteyrn» dei Bretoni, attribuiva le proprie origini alla città di Troia e alla stirpe discendente da Ascanio, figlio di Enea l’Iniziato. Egli fonda l’ordine della Tavola Rotonda su tradizioni antiche.
L’origine dell’istituzione si perde dunque nella notte dei tempi, ma ciò che balza agli occhi è il fatto che tutte le associazioni cavalleresche erano aliene alla dottrina cristiana anche se abbracciavano giocoforza la divisa della Chiesa militante. E ribadiremo ancora la più palese riserva circa il dogma cristiano.
Non insisteremo ulteriormente; ci sembra ormai dimostrato che la cavalleria è un ordine misterico, erede di Menfi, Tebe e della Grecia. Lo studioso Goërres conviene anche lui che la cavalleria formava una vasta società segreta e ne identifica tutti i riti con quelli dei misteri pagani. La cavalleria è venuta a morire nelle attuali logge massoniche dove si incontrano ancora una profusione di titoli cavallereschi di cui si fregiano i Fratelli la cui vanitosa ignoranza ricorda la favola dell’asino che trasportava le reliquie. Henri Martin a ulteriore garanzia: «Ciò che è ben curioso, e di cui non si può più quasi dubitare, è che la Massoneria moderna risale, di scalino in scalino, alla Massenìa del Santo Graal».
Il Graal è la chiave del mistero della cavalleria: è la maschera cristiana della fede antica, il Palladium dell’ordine che lo metteva al riparo dal sospetto di eresia. Il Graal delle leggende della Tavola Rotonda è, per il profano e per la Chiesa gelosa, il Santo Calice nel quale Gesù celebrò l’Ultima Cena il giorno prima della sua morte istituendo il sacramento dell’Eucaristia. In realtà, per gli adepti, è ben altra cosa, o piuttosto il simbolo spirituale dell’arcano materializzato da Roma. La parola Graal ha messo nel più grande imbarazzo gli studiosi di etimologie: Diez si è avvicinato alla radice facendola derivare dal greco crater che – egli afferma – sarebbe potuto divenire cratale. In effetti il cratere – parola presente anche nella nostra lingua – indica proprio una grande coppa.
Ma questa coppa – il Coupo Santo di cui cantano ancora i poeti provenzali d’Albi e i cavalieri del Graal senza saperlo – è il vaso pagano del fuoco sacro. Camille Duteil, antico conservatore della sezione egiziana del Louvre, senza sospettare di aver individuato il Graal della Tavola Rotonda, rivela a pagina 143 del suo inestimabile Dictionnaire des Hiéroglyphes che gli egiziani denominavano gradal un vaso in terra cotta nel quale si conservava il fuoco nei templi. Il provenzale, in particolare il dialetto montano della Languedoc, meno corrotto, chiama grassal un certo tipo di vaso. È opportuno ricordare a tal proposito che i cavalieri continuatori dei riti egiziani parlavano e scrivevano il provenzale. Questo termine passò nella lingua dei trovatori. Il gardal, in scrittura geroglifica – aggiunge l’autore – esprime l’idea del fuoco (il contenente per il contenuto). Serapis portava il gardal sulla testa. Le vergini consacrate dei templi di Menfi curavano il gardal sull’altare di Ptah come l’emblema del fuoco eterno che perpetua la vita nell’universo. L’Igne Natura Renovatur Integra dei Rosa+Croce, a nostra percezione, è una traduzione fonetica di questo simbolo che la cavalleria custodiva con la massima cura. In tutti i templi antichi si venerava questa figura: il tempio di Vesta in Roma ne fu una delle ultime espressioni. Ma si può affermare che l’allegoria sia completamente scomparsa? La fiamma che arde in perpetuo davanti al Santo Sacramento nei santuari cattolici è un ricordo del gardal egiziano, e non è il solo. Dimostreremo un giorno che il cattolicesimo è la sola religione che ha conservato nella liturgia la vera tradizione dei mistagoghi orientali [prima del Concilio Vaticano II forse, N.d.T.].
Il Gardal è divenuto, per contrazione Grâal con un accento circonflesso, poi Graal, scritto senza tener conto del segno di contrazione.
La leggenda cristiana da cui si sviluppò questo mistero e la protezione di Giuseppe di Arimatea [N-O di Gerusalemme] che aveva offerto il sepolcro per il Salvatore, mascherano sufficientemente le origini sospette di questo rito. È vero che tutta la chiesa cristiana riposa sullo stesso fondamento, ma questa, materializzando il simbolo, non espone che l’aspetto essoterico ai fedeli mentre la cavalleria ne rivelava quello esoterico. Per di più non è difficile stabilire che i nomi dei personaggi che gravitano attorno al Graal non hanno alcuna origine ebraica: Giuseppe di Arimatea suona greco. Arimatea è chiaramente proveniente da airemahesis, scienza della dimostrazione. La radice air del verbo aireo, a i r e o , dimostrare, ci fornisce aireticos, a i r e t i k o V , eretico. Era da intendersi come nome di un grado o un soprannome iniziatico; così i Compagnons moderni si individuano ancora fra loro per certi appellativi come ad esempio X-la chiave dei Cuori, Agricol Perdiguier era soprannominato Avignonnais la Vertu. Arimatea era un termine proprio calato nel contesto e adatto a dare il cambio ai capi della chiesa temporale che non vedevano altro che l’arimathaïn di Palestina. Titurel, il fondatore del tempio del Graal, è ancora un nome che deriva da titrào, t i t r a o , che significa forare, penetrare. Corrisponde a Perceval, Parsifal, Perceforest [percer in francese significa penetrare, N.d.T.] che sono una traduzione manifesta di Titurel. Questi saggi aggiungono consistenza all’opinione degli studiosi che abbiamo chiamato in causa.
Sarebbe superfluo continuare in un’esposizione sommaria della storia segreta della Cavalleria; del resto la prova delle origini misteriche della Cavalleria è stata fornita con ampiezza notevolissima da un uomo di grande cultura, di amplissimo spirito religioso, Eugène Aroux, amico dello storico della Chiesa Cesare Cantù e traduttore della sua Storia Universale. Eugène Aroux consacrò a questa dimostrazione una serie di opere di un’erudizione insospettabile che citiamo in ordine di data: Dante eretico, rivoluzionario e socialista; La Commedia di Dante tradotta in versi secondo la lettera e commentata secondo lo spirito; Il Paradiso di Dante illuminato a giorno; Decrittazione massonica della Commedia albigese; Prove di eresia di Dante, con particolare riferimento a una fusione operata intorno al 1312 nella Massenìa albigese, il Tempio e i Ghibellini per costituire la Massoneria; Chiave della Commedia anti-catara di Dante; L’eresia di Dante dimostrata da Francesco (?) da Rimini e Excursus sui romanzi del Graal; La chiave della lingua dei Fedeli d’Amore e infine I misteri della Cavalleria e dell’amore platonico nel Medioevo.
L’autore di questa opera da monaco benedettino sacrificò un parte della sua fortuna e tutta la sua esistenza per far prevalere storicamente nella chiesa e nelle università il dati di fatto palese e irrefutabile che Dante fosse uno ierofante della Massenìa cavalleresca e fondatore della Massoneria moderna. Questo concetto è recepibile solo nelle sue linee principali perché la base ermetica dell’istituzione cavalleresca è sfuggita alle ricerche di Aroux il quale aveva una relativa conoscenza di certi aspetti esoterici.
Il punto di vista di Aroux differisce sensibilmente dal nostro: il nostro obbiettivo è il trovare un mezzo di conciliazione che non comporti alcuna incompatibilità assoluta. «Esisteva in realtà – egli dice – nella civiltà del Meridione di Francia come in quella del Nord, assai più arretrata, e non poteva esservi che una sola cavalleria. Era puramente feudale e per niente ispirata eroticamente. Quella dei Tristan, dei Lancelot du Lac, degli Amadis e dei Galaor non è esistita che nei romanzi e nelle assemblee segrete della Massenìa albigese. È in quest’ultima che bisogna cercare i cavalieri del Cigno, dell’Aquila Nera e Bianca, d’Oriente e Occidente, ecc. così come i seguaci d’amore a tutti i livelli».
Cosa dire? Questa tradizione di bravi cavalieri erranti e di cultori d’amore pronti a spezzare una lancia per il trionfo dell’onore e del buon diritto non si fonderebbe altro che su una finzione mistagogica e non avrebbe tratto vigore che dai sotterranei, numerosi in verità, ma assai distanti dagli alti manieri e dai fierissimi castelli erti su cime troppo elevate? Aroux cade qui in un errore scusabile confondendo nobiltà e cavalleria. Le due cose potrebbero combinarsi in un’unità, ma non erano assolutamente della stessa natura. Quando egli ci parla di una cavalleria feudale e di una cavalleria amorosa fa mostra di un’incongruenza assai strana in un uomo così preparato.
Aroux si sbaglia, perché non vi è che una cavalleria: quella dei misteri. Tutti i nobili, anche i più grandi feudatari non vi erano ammessi. Il titolo di cavaliere era ricercato come il più grande onore che poteva toccare in sorte a un uomo sulla terra e coronamento della nobiltà. Questa dignità era egualmente rifiutata ai re. Certi sovrani in realtà l’acquisirono in un periodo di decadenza in cui la cavalleria non era altro che un nome vuoto da cui lo spirito si era ormai dipartito. Ed anche se per i bisogni della causa ci si ridusse ad accogliere un sovrano regnante all’interno del tempio, fu a titolo profano che Napoleone o Luigi XVIII poterono essere ricevuti come Massoni.
Il titolo di cavaliere non può essere conferito alla leggera; egli deve sostenere le sue prove. Si è immaginato erroneamente che questi prodi si limitassero a rudi stoccate e a prove di bravura: in realtà il tutto si svolgeva altrimenti. Per essere armati cavalieri bisognava essere uomini di bontà nel senso più totale del termine, rinunciare alla vita di rapina degli alti baroni predoni e distruttori e proteggere vedove e orfani, in una parola essere rigenerati e nati a nuova vita. La chiesa, nell’XI secolo, non poteva che opporre un debole ostacolo alle razzie dei grandi signori e non può aver esercitato un’influenza sufficiente per poterle riconoscere il merito di un inversione sostanziale nei costumi feudali.
Per un’opera così considerevole necessitava una leva ben più possente di quella della forza della Chiesa composta soprattutto di elementi temporali. Non vogliamo negare assolutamente alla Chiesa romana un’azione morale che sarebbe ingiusto non riconoscere. Ma la cavalleria, anche se sviluppatasi sotto la sua protezione, aveva soprattutto un’abile mascheramento, lusingando la potenza papale e intraprendendo (sotto la maschera) la guerra di trincea che si è prolungata fino ai nostri giorni. Per rendersi conto di cosa era a quel tempo la chiesa ufficiale è sufficiente leggere l’orribile ritratto che ne traccia con veemenza Pierre Damien. Mai fu vista espressione più eclatante di putrefazione. Sarebbe dunque ragionevole immaginare un clero depresso come quello istigante il movimento cavalleresco? Il Vaticano sarebbe in grave imbarazzo nel produrre le prove ed è ben cosciente oggi che vi erano ben altre radici. Eugène Aroux, di quest’avviso per altro, si dimostra in questo senso mal informato: se si accetta la istanza di principio, la sua tesi crolla nelle basi.
Un obiezione si pone immediatamente: in quel tempo felice la cavalleria non era ereditaria mentre la nobiltà di razza lo era. Questo tratto precipuo dimostra che la cavalleria si consacrava a un’evoluzione morale del tutto particolare.
Ciò che ha creato questo malinteso nello spirito di Aroux afferisce a questo fatto di natura organizzativa: vi era nella nobiltà un organizzazione militare fortemente equestre in quanto al tempo si combatteva a cavallo; ma questi uomini di guerra a cavallo impugnavano la spada della forza e non quella della lealtà. Mai la storia potrà provare che i guerrieri a cavallo erano elevati cavalieri con una investitura tradizionale. Il grado di cavaliere (bannerit), causa di quest’errore, è una semplice omofonia senza riflessi derivata dalla parola cavallo. La cavalleria leggendaria, che è anche quella storica, esigeva un periodo di prova assai lungo.
In origine durava ben ventun anni; essa era conferita per mezzo di una cerimonia simbolica che sorprendeva il meno prevenuto. Dei padrini o testimoni erano indispensabili e non erano assolutamente delle comparse formali. Il candidato prendeva dapprima dei bagni frequenti e successivamente passava diverse notti in una cappella oscura in totale assenza di luce. Era la notte del sepolcro nella quale il vecchio uomo veniva inumato per esperire la putrefazione e resuscitare, poi, a nuova vita (la Vita Nova dantesca). Successivamente riappariva alla luce vestito totalmente di bianco per testimoniare la sua resurrezione morale. Adiva poi i riti della religione ufficiale. Dopo aver adempiuto a questo dovere riceveva la spada, quella del giusto combattere, e si procedeva alla vestizione. Un discorso iniziatico accompagnava l’atto dell’assumere ciascun pezzo dell’armatura che fissava in certa maniera il recipiendario ai doveri insiti nella sua carica. Roy, in un piccolo saggio, stampato tempo addietro presso Marne, raccoglie talune delle allocuzioni pronunciate in quella occasione; l’intenzione esoterica vi è palese: l’armatura non è altro che un’allegoria. Tutti i faciloni profani hanno ignorato il senso filosofico di tutto ciò.
Fauriet riconosce nel suo Corso di letteratura provenzale, pur in mezzo alle più grandi perplessità, che la cavalleria col reclutare nella minima nobiltà si poneva al riparo dalle azioni criminali della nobiltà da preda: «Questi uomini che prendevano in così elevata considerazione l’amore non erano né grandi baroni né potenti feudatari. Erano per la maggior parte poveri cavalieri senza feudi (l’autore qui si esprime con la lingua della nobiltà attuale per la quale il titolo di cavaliere è il più basso nella gerarchia). La maggior parte di essi apparteneva ai ranghi più bassi del sistema feudale e molti di essi sono proprio ricordati per la loro estrema povertà e il risalto minimo sulla scena del tempo».
Forse non viene da meravigliarsi che la chiesa non avesse affatto fiutato l’inganno? Ma "molti conventi, tanto maschili che femminili, erano invasi dall’eresia" dice l’Aroux. E Aidre Tieberg, nella sua eccellente opera sulla Route Sociale segnala certi monasteri dello Champagne che, nel Medioevo, celebravano i riti simbolici della Massoneria; solo successivamente andarono a sparire, e con ragione.
In verità la cavalleria, di cui l’Europa si onora e si incensa, ha impegnato con troppa ampiezza la vita reale perché la si possa ridurre ad una cavalleria puramente allegorica come quella dei (racconti). Una sarebbe sfumata nell’altra a tal punto da obnubilarla fornendo col mutamento un aspetto tale che si possa oggi scambiarla per l’altra? Il fatto avrebbe del prodigioso perché la nobiltà così gelosa delle sue prerogative non sarebbe rimasta impassibile a tale usurpazione che diminuisse il proprio prestigio.
La cavalleria si ispirava a dei principi così elevati per non essere unicamente un’istituzione guerriera, dato che pure quella che E. Aroux considera come cavalleria araldica testimonia essa stessa le più nobili aspirazioni.
Secondo il nostro parere essa è l’emanazione di alti spiriti del tempo che professavano il cristianesimo filosofico. Se era altrimenti e se si dovesse necessariamente creare una commistione fra cavalleria e Albigesi, Catari e Valdesi converrebbe abbandonare la logica e dire che tutti i membri di queste sette erano cavalieri.
Non ci rifiutiamo di riconoscer loro dei legami in spirito con la cavalleria; ma quest’ultima occupava il livello al di sopra dell’eresia professata dal popolo e coordinata da un sacerdote di pari condizione. Al posto dei trovatori che cantavano di buoni pensieri i contadini avevano gli ambulanti, i mercanti, i pellegrini e i guitti di strada. Questo stato di cose dipendeva necessariamente dall’influenza rigeneratrice della classe superiore ma, anche se essi professavano intimamente la medesima dottrina, la maniera d’esercitarla differiva.
Ed eleviamo le stesse riserve riguardo il cristianesimo dei cavalieri. Aroux lo intende, rispetto a quello dei nostri giorni, ad uno stato di purezza primigenia; noi pensiamo, al contrario, che al momento in cui la chiesa venne a patti con il potere temporale dando ai fedeli la carne materiale del Cristo quale unico nutrimento, gli ierofanti del cristianesimo filosofico, per salvare dalla rovina incombente la Religione della Saggezza, suscitarono il movimento cavalleresco per esercitare un’azione sulle classi più elevate e seguire il dettato degli antichi misteri consistente nel nutrimento dell’anima per mezzo della Scienza.
E dopo aver riunito in un sol corpo la cavalleria che l’Aroux aveva diviso in due, crediamo utile riprodurre qualche pagina assai illuminante sui Misteri della cavalleria riportati dall’autore in La Massenìa del Santo Graal e le corti d’Amore.
Goërres ha fatto uno studio comparativo fra le iniziazioni ai misteri e l’antica cavalleria. Un estratto di questo studio dovrebbe trovare giusto spazio e forse potrete procurarvelo. Il suo lavoro viene a confermare la mia tesi contro quella dell’Aroux; farebbe dunque un’ottima figura e documenterebbe con maggior solidità questo lavoro.

 


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