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Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus, Roma 1653

 

François Secret

Pico della Mirandola
e la cabala cristiana

Dal primo capitolo di François Secret
Les Kabbalistes Chrétiens de la Renaissance, Milano 1985, Archè Arma artis,
tradotto da Alexander

 

Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), la «Fenice della sua era», il «grazioso principe del Rinascimento», è entrato molto presto nella leggenda. Quando nacque apparve una sfera di fuoco nella camera di sua madre. La sua memoria era tale che dopo la lettura di un poema poteva recitarlo anche cominciando dal suo ultimo versetto, e prima che s’illustrasse del suo caso la teoria della metempsicosi, Postel, che si specchiava in lui, parlava «del divino o veramente angelico e più che umano spirito che dimorò dentro il signor Pico della Mirandola».
A quattordici anni abbandona il diritto canonico per la filosofia e le lingue, ed è nota la carriera folgorante che lo porta da Bologna a Ferrara, a Padova, a Parigi, a Firenze. Avido di tutto conoscere, Greci e Latini, Arabi ed Ebrei, propone a ventitré anni le sue 900 tesi «de omni scibili». Il suo prestigio fu tale che uno storico come L. Febvre scrisse «che sciorinava i suoi sogni in molti grossi volumi», quando la parte di Giovanni Pico della Mirandola costituisce il più piccolo degli in-folio che riuniscono le opere dello zio e del nipote, Giovanni Francesco, col quale ancora sovente lo si confonde. Ed è così che la tradizione attribuì a Pico della Mirandola la gloria di aver introdotto, in campo umanista, la cabala.
Il giovane Conte aveva, è vero, dichiarato nell’Apologia, scritta per difendere le tesi che stavano allarmando l’opinione romana: «Credo di essere stato il primo ad aver fatto esplicita menzione della cabala». Sin dal 1516, Johannes Reuchlin, nel suo trattato sull’Arte della Cabala, faceva dire al principale interlocutore del dialogo, l’ebreo Simeone, che «quelli che in ebraico sono chiamati Mekablim sono designati in latino con i termini di Cabalisti o Cabalici, dopo Giovanni Pico della Mirandola, prima del quale questo nome era sconosciuto nella lingua dei Romani». Nel 1517, in un trattato di Cabala dedicato al cardinale de’ Medici, il futuro Clemente VII, il cardinale Gillio da Viterbo, che ammirava peraltro meno la scienza di Pico di quella di Reuchlin, gli riconosceva il primato in Cabala, ed è quanto ripeteva il francescano Pierre Galatin nel trattato De arcanis catholicæ veritatis, scritto per difendere Reuchlin e pubblicato nel 1518. Il duraturo successo delle opere di Reuchlin e di Galatin, spesso ristampate insieme, determinò la tradizione.
Se a più di un titolo Pico della Mirandola merita di rimanere l’eroe della cabala cristiana, in verità si capirebbe male l’apparizione della cabala in ambiente umanista e la sua evoluzione senza tener conto della famosa dichiarazione di Pico e dell’ambiente in cui egli stesso sviluppò il suo pensiero.
Parlando di cabala implicita, il giovane Conte nella sua Apologia ci teneva a richiamarsi agli antenati. Tra le tredici tesi sospette, esaminate dalla commissione riunita da Innocenzo VIII, appariva in effetti la nona della serie delle Conclusioni magiche secondo la sua opinione: «Non vi è scienza che ci dia maggiori certezze della divinità del Cristo della magia e della cabala». Come Reuchlin riferisce, dopo Pico della Mirandola, «la sola parola cabala è parsa così orribile alle orecchie dei dotti che questi hanno potuto pensare che si trattava non di uomini, ma piuttosto d’ircocervi, di centauri o di simili altri mostri. Nel corso di una conversazione, avendo qualcuno chiesto cos’era la cabala, gli fu risposto che si trattava di un uomo perfido e diabolico che aveva molto scritto contro il Cristo, ed erano i suoi discepoli che erano chiamati cabalisti». «Ci sarebbe da ridere», esclamava Pico con Orazio. Ma si lanciava anche in lunghe spiegazioni, avvisando che «chi le leggerà troppo in fretta vi troverà invece di un Edipo, misteri ed enigmi». Spiegava allora:

Bisogna dunque sapere che non soltanto secondo Rabi Eliazar, Rabi Moyse d’Egitto, Rabi Simeon ben Lagis, Rabi Ismael, Rabi Jodah e Rabi Nachiman e innumerevoli altri saggi ebrei, ma anche secondo i nostri stessi dottori, come illustrerò più avanti, Dio diede sulla montagna, a Mosè, oltre alla Legge che fu messa per iscritto nel Pentateuco, la vera spiegazione della Legge con la manifestazione di tutti i misteri che sono contenuti sotto la crosta e l’apparenza grossolana delle parole. Questa duplice legge letterale e spirituale, Mosè ricevette da Dio l’ordine di mettere la prima per iscritto e di comunicarla al popolo, ma di guardarsi dallo scrivere la seconda, e di affidarla ai soli saggi in numero di settanta, scelti da Mosè per ordine di Dio allo scopo di conservare la Legge. Mosè fece a quei saggi la stessa raccomandazione di non scriverla, ma di rivelarla a viva voce ai loro successori affinché questi, a loro volta, facessero lo stesso.
È il modo di trasmettere questa scienza come eredità, ricevendola cioè da un maestro, che ha fatto dare a questa scienza il nome di cabala, che significa ricevimento... Che sia proprio così: che Dio diede a Mosè la Legge letterale perché la consegnasse per iscritto, e che Dio rivelò inoltre i misteri contenuti nella Legge, ho cinque testimoni tra i nostri: Esdra, Paolo, Origene, Ilario e il Vangelo.
Abbiamo per cominciare questo testo di Esdra al quale il Signore si rivolse in questi termini: «Ho fatto la mia rivelazione nel roveto, ed ho parlato a Mosè, quando il mio popolo era schiavo in Egitto. E l’ho fatto uscire dall’Egitto. E l’ho fatto salire sul Sinai, dove l’ho trattenuto vicino a me per molti giorni. E l’ho fatto partecipe di molte delle mie meraviglie. E gli ho mostrato i segreti e la fine dei tempi. E gli ho ordinato: «Queste parole dichiarale, quest’altre, celale».
Abbiamo poi il parere autorevole di Origene, la cui testimonianza per le tesi che la Chiesa accoglie è molto forte, in quanto là ove è buona, non v’è uomo migliore. Origene dunque, su questo passaggio di Paolo, al capitolo III dell’Epistola ai Romani, dichiara: «Qual è dunque la superiorità dei Giudei, o qual è l’utilità della circoncisione? Anzitutto perché a loro furono affidate le promesse divine». Origene afferma che occorre prenderli in considerazione, non perché si tratta della lettera scritta, ma in quanto sono gli oracoli di Dio. Da questo testo di Origene ricaviamo che oltre alla Legge letterale, qualcos’altro fu trasmesso ai Giudei, che Paolo chiama gli oracoli di Dio. La lettera, cioè la legge letterale, nessuno nega che fu loro rivelata. Ma essa non è per nulla una prerogativa, in quanto per se stessa la lettera uccide; se non è vivificata dallo spirito è di per sé completamente morta. Ma oltre a questa legge furono loro dati gli oracoli di Dio, di cui si vantano a ragione e che non sono che ciò che gli Ebrei chiamano Cabala, cioè il vero senso della Legge ricevuta dalla viva voce. L’espressione «Torah scebealpe», che troviamo in loro, significa legge della bocca che, essendo ricevuta in eredità, si chiama cabala.
Che questa scienza ricevuta da Dio Mosè l’abbia in seguito comunicata ai soli 70 anziani, Ilario lo testimonia chiaramente nella spiegazione del salmo II: «Perché si sono mobilitate le genti...». Scrive: «C’erano già, dai tempi di Mosè, 70 dottori prima dell’istituzione della Sinagoga. In quanto Mosè stesso, che aveva consegnato per iscritto le parole dell’Antico Testamento, affidò a parte alcuni dei più segreti misteri dei segreti della Legge ai 70 anziani che ebbero dei successori. Il Signore stesso ricorda questa dottrina quando dice: «Gli scribi ed i Farisei si sono assisi sulla cattedra di Mosè. Fate dunque ed osservate tutto ciò che essi dicono, ma non imitate le loro azioni». La loro dottrina passò ai loro successori. Queste sono le parole di Ilario. Allora, secondo la testimonianza specifica di questo Padre, vi fu oltre alla Legge scritta, un’altra dottrina più segreta che Mosè aveva «consegnato» ai 70 saggi.
Che questa dottrina più santa e più vera che spiegava i misteri della Legge non sia stata resa pubblica ma soltanto rivelata da Dio a Mosè, e da Mosè ai 70 saggi, Origene ne dà testimonianza ancche nel prosieguo del passaggio che ho citato. È da Mosè, dai profeti e da quelli che sono loro simili che bisogna ascoltare le parole «ai quali furono confidati gli oracoli di Dio». Attraverso questi ammirevoli consiglieri, occorre ascoltare quelli che gli Ebrei chiamano Senedrin, cioè quei 70 anziani, che Mosè elesse su ordine di Dio.
Mi sembrano aver rivestito il ruolo tenuto ai nostri giorni dai cardinali della nostra Chiesa. E conformemente al loro numero di 70, come dichiareremo ora, i misteri della Cabala furono redatti in 70 libri principali al tempo di Esdras. Infatti fino ad allora nulla era stato messo per iscritto di questa dottrina che, come ho detto, era trasmessa per ricezione ereditaria, da cui il termine di cabalistica. Quando gli Ebrei furono liberati da Ciro dalla schiavitù di Babilonia, ed il tempio restaurato sotto Zorobabele, Esdras, che presiedeva la Sinagoga, dopo aver riordinato i testi dell’Antico Testamento, volle anche redigere i segreti oracoli di Dio, per evitare che la tradizione andasse perduta nel corso delle vicissitudini della storia del suo popolo. Esdras fece dunque redigere in 70 libri dai 70 anziani i misteri che non furono peraltro in seguito confidati che ai soli saggi. Sono le parole stesse di Esdras: «Dopo quaranta giorni, l’Altissimo parlò e disse: «Le prime cose che hai scritto consegnale al pubblico; che le leggano i degni e gli indegni. Ma conserverai i 70 ultimi libri per affidarli ai saggi del tuo popolo, in quanto in questi libri si trovano i fondamenti dell’intelligenza, la sorgente della saggezza ed il fiume della scienza.

Pico della Mirandola riprendeva qui i termini dell’Oratio, che doveva pronunciare all’apertura della discussione delle sue 900 tesi, e ritorneremo su questi 70 libri che credette aver ritrovati, acquistando dei manoscritti di cabala. A queste autorità ne aggiunse delle altre, come quella di San Girolamo, che fa spesso riferimento all’opinione dei suoi maestri ebrei. A coloro che obiettavano che poteva trattarsi di altri autori ebrei, rispondeva: «Non si può dubitare che Girolamo parli dei dottori della cabala, cosa che si può dimostrare in maniera evidente. Tutta la scuola degli Ebrei si divide infatti in tre sette: filosofi, cabalisti e talmudisti. Non si può credere che i nostri antichi dottori si siano rapportati ai talmudisti, in quanto Clemente e molti altri che citano gli Ebrei vissero prima della composizione del Talmud, redatto più di 150 anni dopo la morte del Cristo e perché la dottrina del Talmud è interamente costruita contro di noi dagli Ebrei, nostri nemici. Pertanto i nostri dottori non avrebbero concesso un tale onore a questa dottrina. É altrettanto certo che non si riferiscono ai filosofi, in quanto quelli che cominciarono ad esporre la Bibbia secondo la filosofia lo fecero recentemente. Il primo fu Rabi Moïse d’Egitto, contemporaneo di Averroès di Cordoba, morto da 300 anni...» Nell’Heptaplus Pico riprenderà ancora questa regola degli antichi ebrei, ricordata da Girolamo, che nessuno poteva trattare della creazione del mondo, il Ma’ase Bereshithh, prima di aver raggiunto la maturità.
I successori di Pico della Mirandola non tralasciarono di riprendere queste autorità, all’occasione aggiungendovene delle altre. Girolamo, nelle sue opere, ricorda che ogni parola, sillaba, segno, punto delle divine Scritture sono pieni di sensi. Infatti sulla Genesi, a proposito di Abraham e di Sarah, scrive:  «Gli ebrei affermano che Dio trasse dal suo nome di quattro lettere la «He» per aggiungerla a quelli di Abraham e di Sarah. Abraham si chiamava prima Abram, che si interpreta: Padre elevato; fu in seguito chiamato Abraham, che è tradotto: Padre di molte nazioni». Non tralasceremo di citare l’esegesi del versetto 26 del capitolo XXV di Geremia: «E il re Sesac berrà dopo di loro», dove Sesac significa Babilonia: «Come Babilonia, che si dice in ebraico Babal, può essere compresa nel nome di Sesac, colui che avrà qualche conoscenza dell’ebraico lo capirà senza difficoltà. Allo stesso modo che da noi l’alfabeto greco, che si legge dalla prima all’ultima lettera, Alpha, Beta, ecc., sino all’Omega, si può leggere al contrario, unendo la prima all’ultima: Alpha Omega, Beta Psi, per aiutare i bambini a ricordarlo, così presso gli Ebrei, dove la prima lettera è Aleph, la seconda Beth, la terza Gimel, fino alla ventiduesima ed ultima, Tau, e la penultima, Shin; leggiamo Aleph Tau, Beth Shin, per arrivare al centro dove la Caph incontra Lamed, e così per Babel, leggiamo, cambiando l’ordine delle lettere, Sesach». Ciò che è uno degli alfabeti, chiamato Ath-Basch, che Reuchlin spiegherà.
Ed è a chi ricorderà l’osservazione di Girolamo a proposito di Ezechiele, che con l’inizio della Genesi non può essere studiata prima dell’età matura, o la lista dei dieci nomi di Dio: «El, Elohim, Tsevaoth, Elim, Eser, Ehie, He, Vau, He, Shadai». E uno dei testi maggiormente riprodotti fu quello dove Girolamo dava il senso dell’alfabeto ebraico. Per quanto differisse da quello proposto da Eusebio, certi cabalisti cristiani non temettero di farne una sintesi, come C. Duret, che raccoglie tutta l’eredità del secolo nel suo Thrésor de l’histoire des langues, pubblicato nel 1613: «Per quanto concerne la spiegazione o l’interpretazione dei sensi e misteri che sono compresi sotto la scorza degli alfabeti, diremo che Eusebio, libro 10, capitolo 2 e libro 11, capitolo 4 della sua Préparation, e nella sua prefazione dei commentari sulle Lamentazioni si beffa a buon diritto dei Greci i quali, con tutta la loro sufficienza ed impeto nell’esaltazione della loro lingua, non saprebbero trovare alcun significato dal loro alfabeto, così come fanno i bambini degli ebrei in quello della loro lingua ebraica, ai quali se si chiede cosa significa Aleph, immediatamente rispondono che è disciplina, Beth una casa, intendendo con queste parole la casa di disciplina, come se si intendesse una disciplina di dottrina, di economia e di spesa; Gimel pienezza di voce, Daleth dei libri, He, l’insieme che è stato detto precedentemente...».
A Girolamo ed Eusebio si aggiungeva Ireneo che riportava un’esegesi del nome di Gesù: «Secondo la lingua degli ebrei, il nome di Gesù si compone di due lettere e mezzo, come dicono i loro dottori, e significa che è il maestro che contiene il cielo e la terra». Così che un esegeta della fine del secolo, Drusius, spiegava: «Cosa che sembra più oscura di un enigma. Ma non serve un Edipo. Io Davus, lo spiegherò: jsv ha tre lettere di cui la prima Ioth è chiamata semilettera, in quanto non raggiunge che il centro delle altre lettere. Queste lettere significano ihwh (jhvh.jpg (1374 byte)), che traducono con Maestro. Shin è messa per Semaim, il cielo, e Vau per Vearets, e la terra. E si ha: maestro del cielo e della terra».
Alcuni trovarono il termine di cabala dove non c’era, in un testo di Tertulliano contro Marco e Colorbasius, eretici, che «giocando con le lettere, avevano tratto innumerevoli dogmi insulsi e pericolosi, abusando di quanto il Cristo aveva detto nell’Apocalisse: «Io sono l’Alfa e l’Omega». E si vedrà preferire alla cabala ebraica «la vera cabala cristiana», esposta da Raban Maur nei louanges de la Croix, trattato ristampato nel 1503 a Pforzheim, a cura di J. Wimpfeling, sotto il patronato di Reuchlin. In questa opera, alla maniera greca, prosa e versi collaborano con 28 immagini a spiegare i misteri della fede cristiana ed i numeri mistici, quelli degli angeli, dei venti, dei sette doni dello Spirito Santo, delle otto Beatitudini....

 


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