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Maurizio Nicosia

 

L’Attore, la Maschera, il Destino
Riflessioni sulla funzione sacrale e conoscitiva dell’arte teatrale

 

Come è possibile l’arte dell’attore? La prima risposta potrebbe essere: per l’uomo comune l’arte dell’attore è impossibile. Non voglio con ciò dire che l’uomo comune sia inferiore all’attore. L’arte dell’attore consiste –cioè esiste solo allorché riesca– nel far vivere un personaggio il cui destino è predeterminato e conosciuto da chi lo interpreta.
Attore è colui che si pone in atto. Se assumiamo che un ente sia in atto quando possegga la propria determinazione, o in altre parole la propria compiutezza, è evidente che l’uomo comune sia in atto solo varcando la soglia della morte. Allora, solo allora, il suo destino è compiuto. Mentre il destino del personaggio è sempre in atto. Anche quando il drammaturgo non pone alcun termine all’azione del suo personaggio o perfino nessun principio alla sua azione (come per esempio in Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello) o, ancora, suggerisce altri percorsi possibili, il personaggio sarà sempre de–terminato: il suo destino sarà di esserne privo. La sua vita si spegnerà comunque all’offuscarsi dei riflettori.
L’uomo comune, invece, non conosce le rotte del proprio destino. Egli può riguardare la sua navigazione solo quando approda all’estremo ormeggio. La sua vita è dunque, prima d’allora, sempre in potenza. Ma in quanto individuo che ignora il proprio destino, l’attore è anche, è in primo luogo, uomo comune. Così però si torna alla risposta iniziale che si prospetta come un vicolo cieco nel quale è impossibile avanzare. Ma forse si può fare ugualmente un passo avanti, prendendone ‘atto’. Per un verso si può dunque pensare l’arte dell’attore come l’arte dell’impossibile.
E dunque un’arte in perenne difetto, che addita una meta, la compiutezza del destino, senza poterla raggiungere. È in questo difetto la sua grandezza: nell’additare una grandezza sovrumana. Il dramma (in greco ‘azione’) è catarsi, come diceva Aristotele, forse in questo senso: manifesta la compiutezza all’essere incompiuto; è purificazione, questo vuol dire catarsi, in quanto permette all’uomo comune, alla sua incompiutezza, di poter osservare un destino compiuto: il destino dei personaggi. Egli può osservarlo con distacco: con lo sguardo del dio. O immedesimandosi. E allora indosserà il destino del personaggio come un abito.
Eschilo fa pronunciare al suo Prometeo amare parole. Ho donato il fuoco all’uomo, e con esso la vita, e la conoscenza –dichiara in sostanza il grande incatenato– ma perché l’uomo non veda il futuro, cioè il suo destino, la morte, e se ne strugga, gli ho velato gli occhi. Prometeo significa in greco: ‘colui che prevede’. (Dal Prometeo incatenato di Eschilo, la voce di Prometeo: «Piuttosto, scese a terra, l’avvenire della mia sorte state ad ascoltare, per poter fino all’ultimo conoscere ogni vicenda»). L’uomo comune è invece come suo fratello Epimeteo, che significa ‘colui che impara solo dopo’. L’attore è prometeico: sa quali saranno gli atti del suo personaggio, cioè i suoi atti, e quale il suo destino. Come Prometeo dona fuoco, dona luce all’uomo comune.
L’arte dell’attore prefigura un disvelamento. Lo spettatore può osservare il personaggio come fosse se stesso e leggere nel proprio incerto coacervo di eventi chiamato vita, la trama, la trama del destino. Ma come può l’attore, se egli stesso è uomo comune, rendere possibile l’impossibile?
Per un altro verso si può dunque pensare l’arte dell’attore come l’arte dei destini già tracciati. Se l’attore, in quanto uomo comune che ignora il proprio destino e vive in potenza, deve impersonare il personaggio, il cui destino è noto e in quanto compiuto è posto in atto, allora può riuscirvi solo se non sia se stesso, solo allorché sia in grado d’essere altro da sé. Può essere detto attore solo chi è fuori di sé. Proprio perché l’arte dell’attore è l’arte dei destini già tracciati, egli deve essere altro da sé, non io. E questo in realtà cela la domanda ‘come è possibile l’arte dell’attore’: come è possibile essere altro da sé ? È un mistero.
Il teatro nasce dai misteri. Dai misteri di Dioniso. I misteri di Dioniso sono divenuti teatro, tragedia, commedia, dramma. Da ‘mistero’ derivano le parole mistica, mistico. Mistico, per l’ateniese del Quinto secolo, rievoca l’atmosfera di una festa notturna. ‘Mysteria’ erano feste che si svolgevano in Grecia in autunno e in primavera: Nel calendario si designavano così i ‘misteri’ autunnali, detti anche grandi misteri. Il nucleo del termine ‘mysteria’ è costituito da un verbo, myein, il cui significato rituale è iniziare e che a sua volta deriva da myein: chiudere gli occhi e la bocca. Il ‘myste’, colui che era stato iniziato ai misteri, dopo l’‘epopteia’, una visione, era tenuto al segreto: chiudeva gli occhi e la bocca –e gli si schiudeva la visione: era tenuto a mantenere segreto il mistero
1. L’iniziazione si fondava su un velamento e su un successivo disvelamento. Si veniva iniziati ai misteri della vita e della morte in primavera, i piccoli misteri, e ai misteri della morte e della vita in autunno, tempo dei grandi misteri.
Di Dioniso si mostrava la maschera. Anzi, in origine Dioniso è la maschera. E dal mistero della maschera nasce la tragedia, l’arte delle maschere. Nelle feste di Dioniso la sposa dell’arconte re si coricava con la maschera –con il dio–maschera– fino alla mattina. D’altronde nelle processioni i ‘mystei’, gl’iniziati s’avanzavano, il volto coperto da maschere sileniche o d’altro genere. Altrettanto nel teatro. In cui vivevano, grazie agli attori, le maschere degli eroi morti.
E cos’è la maschera se non la morte? «Morire significa essere una maschera –scrive Shakespeare– perché chi non ha vita di un uomo, è soltanto la maschera di un uomo». Ma la morte non è forse il non io? Non è forse l’altro da sé? Perciò Dioniso è la maschera: egli è l’ebbro danzante, il fuori di sé. La maschera impedisce l’espressione individuale: indossandola io sono non io, sono l’altro. «Io è un altro», scriveva Rimbaud
2. È quanto l’attore può dire di sé, se è attore: io è un altro. Indossando la maschera l’attore indossa il destino; ma il destino è compiuto solo all’atto della morte. Pertanto egli indossa la morte: la morte dell’io. Ché questo è la morte; morte dell’io, nascita del sé.
Nascita dell’altro. Ecco il motivo della presenza delle maschere sui sarcofagi antichi. Ma in senso più ampio indossare la maschera crea un rapporto tra l’uomo, l’uomo comune, e un altro essere. La maschera crea una relazione, è lo strumento di una trasformazione unificatrice, in quanto essa elimina i limiti divisorî e consente un’identificazione con l’altro. Più in generale: la maschera consente l’incontro dell’individuo con il non individuale
3. Ecco perché dicevo ‘una grandezza sovrumana’.
Quanto detto sinora può forse spiegare perché l’attore non possa essere un uomo comune e le origini sacrali del teatro, ma non certo come si possa essere altro da sé. La risposta non può che essere parziale e allusiva. Non può che affermare: si diviene altro da sé suscitando l’altro che è nell’io, l’altro che è in noi. L’iniziato, attraverso la maschera, manifesta il dio –il non io– ed è il dio. L’iniziato s’identifica con i principi costituivi del cosmo riconoscendo in sé quei medesimi principi. Si diviene altro da sé ascoltando le molteplici, possibili voci del nostro essere, riconoscendoci accomunati all’altro: nel destino. L’altro non è l’estraneo, come generalmente si pensa, al contrario: io è l’altro. Ovvero pensando al nostro io come ad un abito che indossiamo e che verrà in futuro dismesso, al nostro io come a una maschera.
L’attore manifesta un ordine superiore. Deve sapere e potere rinunciare all’uomo comune che indossa. La mia vita è solo un abito, si dovrebbe dire: posso dunque indossare un altro abito.
Ma essere fuori di sé non significa rischiare la follia? È quanto si chiede all’attore? Naturalmente no. Perciò Stanislavskij raccomandava all’attore la giusta misura. Essere fuori di sé significa in questo contesto e in primo luogo varcare i limiti dei sensi. Il nostro io si nutre delle sensazioni del mondo e in tal modo si sostanzia. Quando gli occhi gli comunicano l’immagine dell’albero egli lo riconosce come forma, in primo luogo, e come forma diversa dalla sua. L’albero è parte del mondo, ma io non sono esso, quindi l’albero è non io. Perciò l’attore, per essere l’altro, deve superare i limiti dei sensi.
Ma anche l’uomo comune deve superare i limiti dei sensi. Forse che il nostro occhio è in grado di precisare una distanza, o la nostra mano può precisare un peso? Si può dire che una cosa è molto, poco distante o molto o poco pesante, ma si resta nell’approssimazione, nella vaghezza. La misura nasce dalla consapevolezza dei limiti dei sensi.
Un metro, in greco ‘misura’, non è indicazione soggettiva, individuale, ma impersonale, sovraindividuale. La misura è il modo di cui l’uomo si è dotato per uscire dalla fallibilità dei sensi. Per i greci la misura, metron, è rapporto. È la scienza che consente di istituire rapporti tra fenomeni e fenomeni nonché, al contempo, tra i fenomeni e coloro che li osservano. È la scienza delle relazioni. «Tutte le nostre scienze –avverte però Novalis– sono scienze di relazione».
L’arte dell’attore, come arte dell’essere altro, ha bisogno di una scienza. Della scienza delle relazioni. In che modo la scienza delle relazioni si manifesta nel teatro? Si manifesta fra gli attori e nell’attore. L’arte dell’attore mostra la propria e l’altrui vita come mondo delle relazioni, e il mondo come vita delle relazioni. Mostra il mondo come scenario e la vita umana come parte.
Fra gli attori si manifesta attraverso le relazioni che la trama istituisce fra loro. L’attore incarna un destino, con la maschera, e al contempo conosce i destini dei personaggi che si intrecciano al suo. Sperimenta il proprio destino e quello altrui. In quanto impara a conoscere le relazioni che legano gli uomini agli uomini può manifestare le relazioni che legano i personaggi fra loro. Egli manifesta, con la sua arte, che la molteplicità di forme d’esistenza e di rapporti che intercorrono tra loro, forma una unità inscindibile. Non è possibile, a prezzo di distruggere l’unità del testo, eliminare un personaggio o una scena.
I personaggi sono uniti dalla trama. E una trama è sempre ordinamento. Un ordinamento. La giusta misura, per l’attore, è di non dimenticare il tutto di cui è parte, sia come uomo comune, sia come attore. Anzi: di fondare la sua arte sulla volontà di manifestare il tutto di cui è parte, sia come personaggio che come uomo comune.
L’arte dell’attore, come arte dell’essere altro, ha bisogno di una scienza. Della scienza dell’oggettività come scienza che trapassa i limiti dei sensi e della soggettività, gli umori, le pulsioni, le brame, i desideri e gli appetiti che noi crediamo di rendere unitari chiamandoli «io». Questa scienza, che non è esattamente ciò che oggi intendiamo con questa parola, s’avvia quando si è in grado di dire: non io ma il cosmo in me. Kosmos in greco significa ordine. Per i greci il cosmo è ordinato, soggetto alla misura. È scritto in Proverbi della Bibbia: «Dio ha tutto disposto secondo misura, numero e peso». Il cosmo, in altre parole, è misurabile. Su ciò si affanna la scienza. E lo dimostra. Non io ma il cosmo in me significa: in accordo con le leggi che governano il cosmo, co–ordinato alle leggi del cosmo.
In quanto le leggi che hanno formato e governano il cosmo, hanno formato e governano anche me, manifestandole attraverso il mio abito, il mio io, io sono esse, esco dai limiti corporei e sensoriali del mio essere e vivo esperisco il tutto. Io è l’altro. La goccia dell’oceano non è l’oceano ma partecipa delle medesime leggi.
Nell’attore la scienza delle relazioni si manifesta nella consapevolezza di questa partecipazione al cosmo. L’attore può esperire la misura del cosmo a partire da sé. Nel ritmo. Poiché il senso della misura non è nella misurazione, ma nella consapevolezza del ritmo: nella consapevolezza del respiro, del battito cardiaco, dell’avvicendarsi delle stagioni, e della vita e della morte.
Tutta la poesia e il teatro greci si avvalgono della metrica. E cos’è la metrica se non scienza del respiro? La misura, in greco ‘metron’ è per l’attore, come per il cosmo, l’arte del ritmo: –l’arte del respiro. Nel respiro l’attore esperisce il cosmo, cioè l’altro. Nel respiro il cosmo si manifesta all’attore. A chi gli chiedeva come si definisse, Duchamp ha risposto: "sono uno che respira". Ovvero: sono consapevole di respirare; sono consapevole, altresì, di essere respirato. Sono consapevole che nel respiro il cosmo si manifesta in me come vita.
Si può dunque pensare l’arte dell’attore come l’arte del respiro. Come l’arte di colui che manifesta il cosmo attraverso il respiro. In cui l’attore è il lucente specchio della totalità: nel frammento. Il lucente specchio dell’incommensurabile: nella misura. Il lucente specchio del sé: nell’io.

 

NOTE

Questo testo non è originariamente né un articolo, né un saggio, ma una lettera di risposta a una studentessa dell’accademia d’arte drammatica. Della lettera mantiene un certo tono colloquiale.

  1. Cfr. Károly Kerényi, Miti e misteri, Torino 1979, Boringhieri, p. 143 sgg.

  2. Rimbaud sviluppava il pensiero con radicale lucidità: «È falso dire: io penso. Bisognerebbe dire: mi si pensa..».

  3. Questa è la conclusione cui giunge Kerényi nel saggio Uomo e maschera del libro citato. Sulla maschera si veda anche Titus Burckhardt, La maschera sacra, Milano 1989, SE.

 


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