Hieronimus Bosch,  Ascesa all'Empireo, Venezia, Palazzo Ducale

 

Maurizio Nicosia

La Fortezza Della Luce,
o la Via Regia

In memoria d’Arturo Reghini, Fratello, Sodale, Maestro

 

Sogno d’un’ombra è l’uomo. Ma se viene una luce ch’è dal cielo tutto si fa fulgore intorno agli uomini, e il Tempo si fa dolce
Pindaro, Pitiche, VIII

 

tetraScrive Jünger che «la luce penetra fino nelle fibre del sogno e dei miti più antichi» 1; non potrebbe essere più nitida in questa massima la luce di cui parlerò, ben diversa dalla radiazione elettromagnetica. Se però si desidera mirare questa luce non in stato di sogno ma con una coscienza desta, vivida, e libera, allora ci si deve dirigere verso l’osservatorio della fortezza pitagorica, una delle quattro virtù ‘cardinali’, come le battezzò il cristianesimo, note in età precristiana come virtù ‘socratiche’ e, ancor prima, ‘pitagoriche’ 2.
tetraLa fortezza è virtù caduta nell’oblio, al punto che nel Medioevo viene spesso e frequentemente sostituita dalla prudenza. Riappare nel Rinascimento, grazie ai recuperi filologici dell’antichità; dubito però che la fortezza rinascimentale, ritratta mediante l’effigie dell’uomo che spezza la colonna, coincida ancora con la virtù pitagorica. L’autentica fortezza pitagorica la conobbe però Giordano Bruno, grazie ad essa resistette agli otto anni di torture e probabilmente poté affrontare con serenità lo spettro del rogo: perché già era stato purificato dal fuoco rigenerante di questa somma virtù.
tetraLa fortezza pitagorica è l’osservatorio ideale per mirare la luce e tentare l’ardua ascesa che consente all’uomo di approssimarsi all’origine o di giungervi infine, superando tutte le dualità del mondo temporale. Da questo osservatorio privilegiato la luce non appare come un fenomeno, ma è un noumeno 3, il noumeno, la manifestazione dell’essere, del Principio primo. Da questa vetta la luce non appare come un processo in perpetuo divenire, ma è uno stato dell’essere, è l’essere stesso. Vedere la luce dalla fortezza pitagorica comporta un essenziale mutamento ontologico dell’esistenza: tornare a essere luce.
tetraPer scorgere la fortezza pitagorica è necessario superare i sette difetti dell’occhio, che ben enumerava Al Ghazali nella sua Nicchia delle luci 4. Il primo è che l’occhio vede altro ma non se stesso; il secondo è che non vede lontano, e nemmeno troppo vicino; il terzo è che non vede oltre una cortina; il quarto è che vede l’esterno e non l’interno; il quinto è che vede la parte e non il tutto; il sesto è che vede il finito e non l’infinito; il settimo, infine, è che l’occhio vede piccolo il grande. Al Ghazali sottaceva accortamente gli altri due difetti dell’occhio, che non vede il tempo e soprattutto non vede il senza–tempo, prerogative tipicamente iniziatiche.
tG. Tory, «Champ Fleury», incisione, 1529etraPer avvicinarsi alla fortezza pitagorica è necessario decidere quale via imboccare al bivio che i Pitagorici raffiguravano con la Ypsilon: il momento decisivo della scelta, la scelta del compito e del destino da incarnare, o cercare d’incarnare. Nel Cinquecento la Ypsilon pitagorica divenne allegoria morale del bivio tra bene e male, ma nella Monade geroglifica John Dee 5 descrive le due vie correttamente, nel solco pitagorico, come la via del despota e del filosofo. Credo che originariamente la Ypsilon pitagorica rappresentasse il bivio ‘orfico’ tra la memoria e l’oblio 6. Memoria e oblio, evidentemente, dell’origine.
tetraIl bivio pitagorico rivela la natura dei quattro elementi secondo la loro purezza o impurità. La via del potere, o del despota, è circoscritta tra la terra e l’aria; la via della sapienza o del filosofo, o della rarità, dall’acqua può condurre al fuoco. Alla via della Sapienza alludeva l’Evangelista attraverso il Precursore, il Battista: io vi battezzo con l’acqua, ma colui che verrà dopo di me vi battezzerà nello Spirito Santo: col fuoco divino, pentecostale 7. È bene precisare tuttavia che Pitagorismo e Platonismo non sono dualisti, sebbene ciò sia sostenuto da molti studiosi. Lo sono per ciò che pertiene l’etica, la sfera dell’agire, campo in cui il dualismo è inevitabile; mentre sono monisti per quanto riguarda l’essere, la sfera dell’essere. Pitagorici e Platonici avrebbero caldamente abbracciato il pensiero del Giovanni della prima Epistola: «Dio è luce e in lui non vi sono affatto tenebre» 8.
tetraInvece l’uomo, come ricorda Giordano Bruno, è ombra: né tenebra né luce, sia tenebra che luce 9. Determinante, nella soluzione dell’ombra, è la funzione dei riti di passaggio, siano essi metallurgici o agrarî, si tratti dell’apprendista nel gabinetto di meditazione o del seme nella terra: le forze della terra lo attaccano e il seme muore per rinascere, come ricordano Giovanni Evangelista, l’apostolo Paolo ai Corinzî, Giovenale 10; ovvero nel gabinetto di meditazione l’apprendista, sottoposto all’azione del vitriol nelle viscere della terra, il solvente che scioglie le due nature, scinde l’unità dell’ombra nella sostanza «corporea» e nella sostanza «luminosa».
tetraL’iniziato accede così alla possibilità di superare l’ottavo difetto dell’occhio che Al Ghazali sottaceva, ovvero la visione del tempo. Lo sguardo del non iniziato è circoscritto dall’orizzonte spaziale ed è superfluo che volga la testa verso l’alto. L’iniziato è invece colui che vede il tempo: ne vede anzitutto i segni. Inizialmente coglie i segni elementari d’ogni sapienza astronomica e calendariale: il giorno e la notte, le stagioni. Comincia a cogliere in altre parole la luce come misura 11, come mensura 12, come l’illimitato generi e ordini il limitato. Questo è il primo grado, nella condizione iniziatica, della visione del tempo.
tetraVedere il tempo significa scorgere l’unione degli opposti: tra spirito e materia, tra tempo e spazio l’iniziato comincia a cogliere e sperimentare la forma, lucente fioritura sul punto cruciale delle polarità che circoscrivono il mondo sensibile e intelligibile. E della forma scorge il tessuto, ovvero l’intreccio, il principio della trama, il destino. Comincia a leggere nel tempo, nei tempi della storia, il destino e i suoi segni. Profondo è il senso dei riti agrarî: dalla luce come mensura scaturisce il senso della misura che è ben altro dalla mera capacità di misurare.
tetraIl senso della misura scaturisce dalla consapevolezza della fallibilità dei sensi, consapevolezza che costituisce il primo passo verso la condizione iniziatica. Dal senso della misura emerge la necessità di convenire nel determinare il limitato, da cui scaturiscono i riti d’orientamento, simbolici e reali, delle città, dei siti sacri, dei temenoi. Attraverso il senso della misura si comincia a comprendere la durata, si diviene consapevoli di vivere nella caverna platonica: quanto si agita dinanzi agli occhi nient’altro è che ombra proiettata da un fuoco. Fuoco che lascia presagire, oltre, la luce. Questo è il primo passo per scorgere la fortezza pitagorica.
tetraAdesso la fortezza pitagorica può veramente apparire nella sua maestà. Zosimo di Panopoli 13, alchimista alessandrino, la descriverebbe come un tempio costituito da una sola pietra, luminosa, con al centro una fontana irradiante luce . Campanella ce la descriverebbe circolare come la sua Città del Sole. Giovanni dell’Apocalisse ce la presenterebbe cubica, costruita con le pietre preziose più lucenti, il diaspro, l’agata, e con dodici porte. Se ci volessimo accostare alla più preziosa delle dodici porte, contrassegnata dal segno del capricorno (g), o la porta aurea, vedremmo un arco (W) sul quale sono apposte tre iscrizioni.

t
Jacob Boehme, Theosophische Wercke, Amsterdam, 1682.
La Gerusalemme celeste si dispiega sotto il segno del
Capricorno e della materia prima,
agli antipodi del Logos.

etraA sinistra dell’arco si leggerebbe: «la luce è la prima forma corporea»; a destra: «la trasformazione dei corpi in luce e della luce in corpi è pienamente conforme alle leggi di natura». Sulla sommità, sopra la pietra di volta: «la luce è manifesta alla luce» (phôs gàr photí), affermazione perentoria di Plotino 14, di una splendida, abbagliante tautologia da cui probabilmente derivano le altre due iscrizioni. «La luce è la prima forma corporea» è perentorio, fulminante incipit di Roberto Grossatesta 15, mentre l’iscrizione sulla trasformazione della luce in corpi e dei corpi in luce, dal chiaro sapore ermetico sì da pensar d’ascriverla a un ermetista o alchimista cinquecentesco, è invece di Sir Isaac Newton, e non si trova in un testo d’alchimia o d’ermetismo ma nella sua Ottica del 1704 16.
tetraÈ difficile stabilire se la fonte di Grossatesta sia Plotino il cui sapiente, sommitale pensiero, «la luce è manifesta alla luce», comporta una serie di sillogismi –se la luce è manifesta alla luce, e la luce mi è manifesta, in quanto uomo è in me un quid di luce; ma per lo stesso principio nella luce stessa è presente un quid di corporeo– dai quali sgorga immediatamente la vertiginosa riflessione di Roberto Grossatesta: la luce come prima forma corporea. Forma corporea, e non corpo, tant’è che il primo corpo che menziona Grossatesta, nel solco di Genesi, è il firmamento.
tetraSe la materia è estensione, e la luce si estende all’infinito, allora la luce ha qualcosa che pertiene alla materia. Ma la fulminante affermazione di Roberto Grossatesta forse trasuda della tradizione alchemica 17 antica e alessandrina che proprio in Zosimo aveva un fulgido testimone: descrivendo l’Adam, l’uomo primordiale inscritto nel cerchio cosmico, un Adam plasmato d’una terra «rosso fuoco», Zosimo dichiara che ha due nomi, uno segreto e uno comune; quello segreto è sottaciuto, il nome comune dell’Adam, rivela Zosimo, è phôs, luce 18: l’uomo originario è luce.
Salomon Trismosin, Splendor solis, Sol niger, Londra British Library, XVI, part.Plotino istituisce dunque una sorta di identità, nel senso del Timeo, e Grossatesta tratteggia una monade universale in cui non vi è altro che diversa densità, dalla luce sino ai corpi opachi, una piramide che dal punto originario si estende sino alla massima densità materiale. Questa sostanziale unità dell’universo, a partire dall’Adam di luce, genesi di tutto l’universo, pone irrevocabilmente al di là il deus absconditus. Si manifesta così un’alterità radicale che affiora anche nel simbolo alchemico del sole nero, per esempio nelle squisite pagine dello Splendor solis di Salomon Trismosin: un sole nero che è al di là dell’essere, che non può essere predicato, che già definire Uno è troppo.
William Blake,  La danza di Albione, 1794tetraMa non basta la comprensione di queste iscrizioni per varcare l’arco della fortezza pitagorica. Per varcarlo è necessario incarnarle, è necessario conquistare o ricevere, in questo caso i termini contano poco, un corpo di luce, vivere, sperimentare e superare quella che in innumerevoli tradizioni è nota come prova del fuoco. Torniamo al momento dell’iniziazione dell’apprendista, quando la sua mano vien posta tre volte su una candela: rappresenta in termini evidentemente simbolici ciò che è una realtà iniziatica: la necessità di ricevere un corpo di fuoco, di essere purificato 19.
tetraNel Corpus Hermeticum, nel X trattato dall’eloquente titolo, «La chiave», si può leggere: «Quando dunque l’intelletto –avverte Hermes– si è separato dal corpo terrestre, indossa immediatamente la veste che gli è propria, la veste di fuoco» 20. Porfirio nelle Sentenze precisa: «quando [l’anima] si cura di separarsi dalla natura diventa fulgore secco, senz’ombra e senza nube» 21. Trascurabile è in questo caso la differenza tra ‘l’intelletto’ del Corpus Hermeticum e ‘l’anima’ di Porfirio: l’esperienza è la medesima. Sempre nel Corpus Hermeticum, nel tredicesimo trattato non a caso sulla rigenerazione, si narra l’esperienza con estrema chiarezza: «Guardando in me stesso una visione immortale, realizzatasi per grazia divina, io sono uscito fuori da me stesso per entrare in un corpo immortale» 22. E si aggiunge nel X: «coloro che possono attingere un po’ di più a questa visione, quando sono distaccati dal loro corpo, giungono fino alla visione più bella di tutte…»: la luce 23.
tetraRipercorrendo l’iniziazione in grado d’apprendista, dopo il gabinetto di meditazione e il solvente del vitriol, la «visita» nelle viscere della terra, ecco seguire la purificazione del fuoco e quindi, ben distinta, la visione della luce, prosaica accensione delle luci, ma che nell’iniziazione reale, regia, è veramente la visione della luce.
tetraLa fortezza pitagorica è stata descritta innumerevoli volte come una scala. Se si volesse usare il linguaggio odierno bisognerebbe dire che è una rampa di lancio. Non vi giungono tutti. Platone diceva chiaramente che molti portano il sistro, pochi sono bacchoi. San Paolo, che lo semplificava, diceva che sono «molti i chiamati, pochi gli eletti».
tetraIl più chiaro è Plotino: «tutti gli uomini, fin dalla nascita, si servono dei sensi 24 prima che dell’intelligenza e s’imbattono anzitutto nelle cose sensibili: alcuni rimangono fermi ad esse per tutta la vita e credono che esse siano le prime e le ultime… Costoro sono simili a quegli uccelli pesanti che hanno avuto molto dalla terra e, resi pesanti, non riescono a volare in alto, pur avendo ricevuto le ali dalla natura». Plotino ci presenta qui gli ‘struzzi’, che tanto amano mettere la testa nella sabbia, splendida sintesi del molteplice e dell’indistinto. Ma v’è un’altra, successiva razza: «ce ne sono altri che si sollevano un po’ dal basso, poiché la parte migliore della loro anima li spinge dal piacere alla bellezza 25, ma essendo incapaci di vedere le vette, cadono in basso, verso la vita pratica» dove, va aggiunto, riverseranno il barlume di luce, il barlume di eternità còlto nelle virtù, nell’organizzazione della vita sociale, e saranno, per così dire, i benefattori. Potremmo chiamare questa schiatta le fenici, perché s’è rigenerata nel fuoco e, come la fenice dei testi alchemici che prima del pellicano si squarcia il petto per nutrire i piccoli, si distingue per la qualità rosso fuoco, il sangue: il barlume di luce si trasforma in vita.
tetra«E c’è finalmente una schiatta d’uomini divini –conclude Plotino–che hanno una forza (da tradurre piuttosto con ‘fortezza’, n.d.A.) maggiore e una vista più acuta, i quali vedono con uno sguardo penetrante lo splendore di lassù e si elevano al di sopra delle nubi e della nebbia terrena e gioiscono di quel luogo vero e familiare, come un uomo che dopo tanto vagabondare torna alla sua patria bene governata» 26: la schiatta delle aquile. Solo le fenici e le aquile sono degl’iniziati, di due diversi gradi.
tetraL’iniziazione, al di là dei gradi in cui si effettua, ha due fondamentali tempi. Il primo: comprendere la durata, cogliere e vivere la croce universale su cui fiorisce la forma. Quando i Pitagorici si auguravano ‘Salute’, alludevano anzitutto alla «persistenza della forma» 27. Questo grado però non è ancora di «persistenza della forma», ma di coscienza della forma: di uno stato ultracorporeo.
tetraIl secondo tempo dell’iniziazione, in greco il telos, il compimento, corrisponde all’uscire dal tempo, al sottrarsi al giogo dello ‘zodiaco’, della ruota della vita, della Fatalità, l’Heimarmene. Questo è lo stadio che i Pitagorici definiscono di ‘Salute’, in cui finalmente si conosce e si diviene «persistenza della forma», in cui scintilla il pentagramma, la stella fiammeggiante, l’Adam di luce. Questo è, come si dice in altri modi, il ritorno alla condizione adamitica, alla condizione originaria, la ‘reintegrazione’ o ‘restaurazione’.
tetraSolo alle aquile dunque è dato compiere il viatico iniziatico. «l’intelligenza –dice Plotino– appare a loro da un luogo invisibile e, levandosi su di loro dalle altezze, illumina ogni cosa e abbaglia gli esseri di quaggiù che, impotenti a fissarla, torcono lo sguardo; alcuni sollevano il viso e la guardano, altri rimangono turbati quanto più le sono lontani; ma i veggenti, quelli che sono capaci di contemplare, guardano tutti verso di lei e … non tutti riportano però la stessa visione; ma chi guarda intensamente, vede irradiare da lei la fonte e la natura della giustizia; un altro è tutto posseduto dalla visione della saggezza superiore… la quale diffondendosi su tutto e in tutta l’estensione, diciamo così, di quel mondo, appare soltanto allo sguardo di coloro che hanno già visto altri vivi splendori. Lassù sono gli dèi… e le anime che lassù vedono il tutto e nacquero dal tutto, sicché anch’esse contengono tutto dal principio alla fine…» 28. Eliot direbbe: «Al punto fermo del mondo che ruota: né corporeo, né incorporeo» 29. Non c’è più qui iato tra Plotino e Grossatesta, tra luce corporea o incorporea. Non c’è più né corporeo, né incorporeo: i dualismi sono risolti: sciolti, non sussistono più. Questo è il compimento della fortezza pitagorica.
tetraGiamblico descrive molto chiaramente, senza ombra alcuna, la Fortezza pitagorica: «Una volta purificata la mente e variamente esercitata tramite i sacri studî della scienza 30, allora in secondo luogo si pone il compito d’ispirarle e parteciparle alcunché di salutare e divino, onde non si scoraggi quando si separa dal corpo né distolga lo sguardo per lo straordinario fulgore, quando è addotta verso gli enti incorporei, né si rivolga alle passioni che inchiodano e stringono l’anima al corpo, ma sia assolutamente invincibile di fronte a tutti gl’impulsi affettivi che servono alla generazione e la spingono verso il basso. L’esercizio e l’ascesa per tutti questi gradi costituivano la pratica della perfetta fortezza» 31 pitagorica.
tetraI Versi aurei pitagorici sintetizzano la stessa, identica esperienza: «Allora, lasciato il corpo, salirai al libero etere. Sarai un iddio immortale, incorruttibile, invulnerabile» 32. Dunque la Fortezza pitagorica è una virtù catartica; meglio: è una virtù iniziatica. È la pratica dell’iniziazione, è la via regia. Il catechismo cattolico ce la presenta ancora come la prima virtù: fortezza, giustizia, sapienza, temperanza, a cui è d’aggiungere la quinta virtù dei Pitagorici, l’Amicizia. Solo la prima può dar luce a questa stella di virtù: la Fortezza, che Dante avrebbe cantato come un

angelico templo
che solo amore e luce ha per confine
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