1. Veduta aerea del Comitium
Mariano Bizzarri
L’Ombelico
di Roma
Pochi, forse
quasi nessuno dei tanti turisti distratti e superficiali che calcano le vetuste
vestigia del Foro Romano sa che in prossimità dell’area del Comitium, a ridosso dell’estremità
nord-orientale dei Rostra, si trova
l’Umbiliculus Urbis Romae, l’Ombelico
della Città di Roma, il luogo ove per definizione stessa il Cielo si
ricongiungeva alla Terra e Roma all’Universo.
È qui che il 24 agosto i Romani celebravano
nel periodo arcaico l’apertura del Mundus
(Mundus patet), subito dopo la festa
dei Volcanalia (23 agosto) e prima di
quella degli Opiconsivia (25 agosto).
Il Mundus era un edificio sotterraneo
con un pavimento semicircolare, a forma di conca “riproducente alla rovescia la
conca celeste che sembra sovrastarla” [1]. Questa acuta osservazione di Dario
Sabbatucci rinvia alle note di Guénon [2] inerenti il simbolismo complesso
della lettera araba nun che
graficamente costituisce la metà di una circonferenza, comprensiva del suo
centro.
La
giustapposizione della “conca terrestre” e di quella “celeste” che la sovrasta,
riproduce un cerchio e con questo il simbolo dell’Universo nel suo insieme. La
correlazione tra il cerchio geometrico e quello idealmente descritto dal Mundus e dalla volta celeste va letta a due
livelli: a) a livello orizzontale, sul piano ove si erge Roma, l’Umbeliculus corrisponde al centro della
circonferenza, e colloca per ciò stesso la città eterna al centro del Mondo; b) in
sezione verticale le due conche, idealmente unite da un asse (espresso da un
punto in sezione orizzontale) – l’asse del mondo – definiscono rispettivamente
le realtà celestiali e infernali; il piano di intersezione tra le due
semicirconferenze è quello terrestre al cui livello, e al cui centro, viene nuovamente a essere
collocata Roma che a buon diritto per questo motivo, può fregiarsi del titolo
di Caput Mundi.
Il punto ove
l’asse immaginario prima descritto ricongiunge il Cielo alla Terra e la Terra
agli Inferi è l’Umbeliculus Urbi Romae:
“scavando un pozzo (il mundus) si
apriva la via a una perpendicolare immaginaria che, a partire da da un punto
della conca celeste, toccasse un punto della conca sub-terrestre passando per
il pozzo; questa perpendicolare ancorerebbe Roma ai due punti della sfera che
circonda la terra o localizzerebbe la città con un terzo punto, quello di
intersezione con la superficie terrestre” [3]. Per questo Catone sottolinea che “lo chiamano Mundus con lo stesso nome con
cui i Greci designano l’Olimpo”, evidendianzo come con questo la Romanità volesse
“significare il fondamento cosmico della città di Roma” [4].
Ed è partendo da
Roma, dal suo Umbeliculus, che la
“ricerca” del kosmos può essere
intrapresa. Il simbolismo cui fa riferimento la geometria del Mundus, così come la collocazione
strategica di quest’ultimo nel Foro dove, come vedremo, è tutt’altro che
casualmente messo in relazione al Lapis
Niger e all’ara del Volcanale [5], non necessariamente si prefigge di
riflettere una conoscenza di ordine geografico-astronomico [6], bensì riflette la padronanza di
simboli, riti e miti Tradizionali, in parte direttamente mutuati dagli Etruschi
[7].
La Tradizione
faceva del Mundus una fossa scavata
all’atto della Fondazione di Roma. “Nella fossa la gente raccolta da Romolo per
farne il popolo Romano, gettò ciascuna un pugno della propria terra d’origine e
… le primizie di ogni cosa che, ciascuno secondo la propria cultura, ritenesse
buona o che fosse per sua natura necessaria” [8]. Plutarco sottolinea come questo
rito fosse stato appreso da Romolo nel corso di una cerimonia sacra, “come
fosse una iniziazione”, allestita da alcuni etruschi fatti appositamente venire
perché dessero consigli sul modo di eseguire le cose “secondo le norme divine e
i libri sacri”. La fossa venne quindi ricolmata di terra e Ovidio [9] segnala che al di sopra venne
eretta un’ara su cui si accendeva il fuoco sacro.
Ma dove era effettivamente
posizionato il Mundus di cui, già al
tempo di Catone, sembra che i Romani avessero dimenticato l’effettiva funzione
ed importanza? Le fonti a noi pervenute sono solo apparentemente discordanti,
considerato che individuano due siti distinti. Per Dionigi di Alicarnasso [10] il Mundus era collocato presso la Roma Quadrata, sul Palatino; per
Catone e per Plutarco era invece posizionato vicino al Comitius, a pochi metri dal Lapis
Niger (foto a sinistra). È
possibile che i Mundus fossero due,
l’uno (quello del Palatino) il riflesso dell’altro, così come la Roma Quadrata
era il riflesso della Roma costruita da Romolo a partire dal solco circolare
tracciato ab origine.
Sotto il profilo
simbolico il quadrato esprime una conoscenza e una maestria di ordine inferiore
rispetto al cerchio, con cui contrae rapporti di coordinazione, ma subordinati.
La città quadrata costruita sul Palatino, e inscritta in quella a pianta circolare
originale, traduce l’imperfezione della città umana, riflesso dell’archetipo
celeste, circolare, inarrivabile per l’ingegno umano. Esempi analoghi sono
diffusi nella tradizione misteriosofica e per tutti basti citare quello della
Gerusalemme celeste, a pianta circolare, e della Gerusalemme terrestre a base
quadrata. Il Mundus del Palatino è
probabilmente il luogo dove è stata apposta la prima pietra (la pietra
fondamentale), tradizionalmente collocata a nord-est, mentre il Mundus del Foro, posto all’inizio della
Via Sacra, è propriamente quello che corrisponde all’Ombelico di Roma.
Ed è infatti in
quest’area che, stando a quanto ci tramanda un giureconsulto del I° sec. D.C.,
Gaio Ateio Capitone, venivano celebrate le festività del Mundus [11]. Questo soleva “stare aperto” tre
giorni all’anno: il 24 agosto (subito dopo i Volcanalia, la cui data cadeva il 23 agosto), il 5 ottobre e l’8
novembre. Non è chiaro in cosa consistesse il rito, dato che già al tempo in
cui vissero gli autori che ce ne hanno tramandato notizia (Ovidio, Catone) se
n’era persa contezza. Alcuni hanno suggerito che il pozzo venisse aperto in
quelle date e che un fanciullo vi venisse calato per osservare a quale livello
i raggi del sole si intersecassero con un ipotetico asse centrale. L’operazione
era evidentemente rivolta a desumere informazioni di carattere astronomico e in
particolare poteva permettere di calcolare le posizioni del sole. In analogia
con altri riti similari presenti in diverse comunità Tradizionali, è probabile
che “l’apertura del Mundus” servisse
a ristabilire una comunicazione “effettiva”, “visibile”, tra i tre mondi
(celeste, terreno e infero), nel luogo stesso ove l’asse di congiunzione tra i tre assumeva una ben precisa concretezza.
Il rito aveva un
carattere eminentemente purificatorio,
e quindi propedeutico rispetto a
eventi sacri che il calendario romano prevedeva nei giorni e soprattutto nel
mese immediatamente successivo. Lo stesso termine di Mundus è in rapporto d’analogia etimologica con mondare [12], purificare,
e sono consoni a tale caratteristica gl’interdetti specifici previsti per i
giorni in cui il Mundus restava
aperto. In quanto rito purificatorio, al pari del battesimo e di altre
cerimonie consimili, il rito di apertura aveva un carattere eminentemente
iniziatico, in quanto la purificazione è l’operazione sacra che immediatamente
e necessariamente precede l’inizio di
una nuova vita, individuale (iniziazione propriamente detta) o collettiva (rito
religioso).
Non a caso
Plutarco utilizza il termine telete
per identificare tale rito, una parola che in greco si riferisce ai riti di
iniziazione ai misteri (e più esattamente al loro compimento, n.d.r.).
Vi sono alcuni elementi che fanno pensare come questi fossero dedicati a
Demetra (importata e conosciuta a Roma con il nome di Cerere) e di Proserpina
(Persefone). In effetti l’apertura del Mundus
[13] metteva in relazione, in primo
luogo, proprio il regno sotterraneo (dominio di Plutone [il greco Ade] e della consorte Proserpina, figlia
di Demetra-Cerere) con la realtà terrestre e, come necessaria conseguenza, con
quella celeste.
Per questo in
quei giorni era proibito: 1) dare battaglia (o cominciare una guerra); 2) fare
la leva; e 3) prendere moglie. Circa il primo (e forse più importante)
interdetto, Varrone sottolinea come i Romani: “ritenessero che era meglio andare a combattere quando fosse chiusa la
bocca di Plutone” [14], cioè la bocca degli inferi. In
questo modo non solo si evitavano le inflenze negative sull’esito del proelio,
ma l’attività generalmente nefasta delle potenze ctonie finiva con l’essere
vòlta in positivo, trasformando un giorno non fausto (in conformità con la
congiuntura sfavorevole dei mesi di agosto e novembre) in un dies propizio.
Ma perché il Mundus doveva restare aperto? Non sarebbe
stato più semplice (e più logico) mantenerlo chiuso e bloccare comunque
qualunque influenza infera? Questa è una domanda che può nascere solo in un
contesto dualista, per il quale il mondo è rappresentato come conteso da due
forze opposte ed uguali, l’una benefica e l’altra malefica. In una visione
tradizionale la divinità resta comunque unica, anche nel suo aspetto negativo
che deve coesistere, quale correlato necessario. L’apertura del Mundus permetteva la ri-attualizzazione
di quelle energie che avevano presieduto, tutte, alla creazione di Roma e che
ora venivano ad essere ricomposte e riconciliate, nel momento stesso in cui si
procedeva a ricostituite l’asse del Mondo.
Questo aspetto
della riconciliazione delle energie
creatrici, se da un lato rinvia al momento originario della creazione, del
“non-manifesto” (simboleggiato dal colore nero), quando tutto era nell’Uno,
dall’altro viene a essere riconfermato da una interpretazione che, pur
ponendosi a un livello diverso e precisamente sul piano della storia mitica,
rafforza ulteriormente tale significato. L’apertura del Mundus era infatti anche
la rievocazione del patto concluso tra genti diverse, convenute dalle più
diverse parti d’Italia (tutte accomunate dalla credenza nel Dio Marte) per
diventare un popolo unico. Anche questo processo rappresentò, a cominciare
dalla pacificazione tra Romani e Sabini, una riconciliazione [15]. Come le diverse realtà (celeste,
terrestre ed infera) tornavano a essere una,
in occasione dell’apertura del Mundus,
così il popolo romano ritrovava in quei giorni la sua fondamentale unità, al di
là delle differenze di provenienza.
L’Umbeliculus Romae è il luogo privilegiato ove si ricompone questa
unità, e dove Cielo e Terra intrattengono rapporti specialissimi. Il
posizionamento del Lapis Niger nella
stessa sede è per questo tutt’altro che casuale e, unitamente alla leggenda che
ne fa la presunta tomba di Romolo, chiama in causa elementi fondamentali
inerenti i “riti tradizionali del costruire”.
Scrive acutamente
Salvatore Spoto: “Tra i tanti turisti che oggi visitano il Foro sono in pochi
che si soffermano davanti ai lastroni di pietra nera che, in prossimità dei
Rostri, creano una pavimentazione scura nella pavimentazione del foro. Eppure
qui, e soprattutto nel sotterraneo, raggiungibile per mezzo di qualche gradino,
c’è il compendio di molte pagine, alcune velate dal mistero e altre cariche di
magia, dell’epoca più antica della città. Questo è il luogo che la Tradizione
ha tramandato con il nome di Lapis Niger,
cioè Pietra Nera, angolo sacro di una Roma che, nata grazie alla volontà divina
espressa con il volo degli uccelli, continua a tenere vivo il suo legame con
l’imprerscrutabile.” [16].
La “pietra”,
come elemento della costruzione, è legata
al processo della sedentarizzazione dei popoli nomadi ed esprime simbolicamente
l’inizio di un processo di “solidificazione”, sorta di cristallizzazione
ciclica che prelude agli ultimi tempi del ciclo, del Manvantara, come lo chiama la Tradizione Indù. Il Tempo assume da
quel momento un carattere “materiale” e non a caso acquisisce quella dimensione
“storica” che ne permette lo studio e l’inquadramento futuro. La “pietra” in
questo contesto è, in tutte le mitologie e tradizioni, espressione visibile delle
relazioni che intercorrono tra Cielo e Terra, elemento di quel “ponte” che
viene attivato ritualmente dal
sacerdote (ponti-fex) per la
collettività intera.
Numerosissime
leggende parlano al riguardo delle “pietre cadute dal cielo” come la pietra nera
di Cibele, custodita a Pessinunte (Pergamo) e quindi trasferita a Roma; del
Palladio, portato da Enea nel Lazio, della Pietra Nera (Ka’aba) della Mecca, e di tante altre ancora. Ovunque il
significato misteriosofico è lo stesso: si tratta di pietre provenienti dal
cielo, lapis ex coelis, attestanti il
conferimento d’una influenza e d’una dignità spirituale a un luogo, un tempio o
una città chiamata a svolgere, nella storia, un ruolo di rilievo sotto il
profilo dell’ermeneutica Tradizionale.
Sotto questo profilo il Lapis Niger è propriamente un omphalos, ovvero un “ombelico”, cioè un Centro del Mondo, al pari di altre
pietre come quella che Giacobbe chiamerà Beth-El,
“Casa di Dio” (a sinistra il Lapis Niger durante gli scavi). Ma perché
chiamarla “ombelico”? Perché come l’embrione cresce dall’interno (dal centro)
verso l’esterno, partendo dall’ombelico, così la creazione muove dal centro
verso la periferia; e come il “nuovo” nato trae energia e “linfa” vitale dal
cordone ombelicale, così ogni creazione dell’Uomo trae forza e vitalità solo
nella misura in cui preserva il cordone ombelicale, il collegamento effettivo,
con la realtà trascendente del mondo spirituale.
Anche per questo la pietra è nera e tale colore è proprio del luogo
che reintegra la molteplicità nell’informale [17], nel non manifesto, così come
l’embrione è un uomo in potenza che attende di diventare tale, ovvero di
“manifestarsi”. Il colore nero “riassorbe” ogni forma e ogni colore, una
caratteristica che è propria anche all’Umbeliculus,
come abbiamo già osservato quando si è sottolineato come l’apertura del Mundus ricostituisce l’unità primordiale
delle energie divine che hanno presieduto alla creazione, “riassorbendole”
lungo l’ipotetico asse del Mondo.
La pietra è nera
anche perché è posta alla base
dell’Asse del Mondo e dà pertanto accesso alle regioni infere, ove regna la
Tenebra e la Morte. Non a caso il mito sottolinea come, al di sotto di questa,
riposino le ossa di Romolo [18]. Questo particolare merita di
essere approfondito, considerato che suggerisce in qualche modo che il Lapis Niger sia stato collocato a
memoria del sacrificio necessario del primo Re della città, colpito da un
fulmine e quindi assunto in Cielo.
Innumerevoli
leggende e racconti popolari insistono sulla necessità che qualunque
costruzione (città, ponte, edificio sacro, etc..), per durare nel tempo (e quindi sopravvivere, cioè sconfiggere la morte), debba ottemperare a tre condizioni
fondamentali:
Relativamente a
quest’ultimo punto occorre intendersi sulle parole. Nelle Tradizioni arcaiche e
in quelle di ispirazione proto-indoeuropea (come la Celtica) è verosimile che
un tale sacrificio abbia effettivamente avuto luogo, con l’uccisione rituale di
una persona (donna, fanciullo, un animale sacro), mentre in quelle greco-romane
subentrava un “sostituto simbolico”, in cui molto spesso è il costruttore
stesso ad essere “pietrificato” nella struttura da lui concepita, ed è per
questo che i suoi resti “corporali” vengono ad “incorporarsi” nelle “pietre di
fondamento” dell’edificio.
Il sacrificio
rituale della vita comporta la reintegrazione della molteplicità (che si
esprime nella frammentazione delle individualità umane) nell’Unità divina; per
altro verso rievoca a livello del microcosmo quella morte inevitabile che, così
come si è accompagnata all’atto della Creazione primordiale, così consegue a
quella ricapitolazione dell’atto primigenio che è intimamente connessa alla creazione di un edificio. Costruire in
Terra, ordinando la materia con squadra e compasso, strappandola quindi
dall’informe Caos, equivale a sfidare la Morte, cimentandosi con il Tempo, che
da quel momento comincia a scorrere inesorabile.
Ma essendo “l’Uomo
egli stesso creato – cioè creatura imperfetta – è sterile finché non anima
la propria costruzione con il sacrificio del sé. Per questo in molte leggende viene a essere sacrificata la
moglie o il figlio del costruttore, in quanto effettivamente parte del sé.” [19]. Romolo,
sacrificato alla divinità (cui del resto si ricongiunge come Quirino), viene così ad incorporarsi
nella Pietra, nel Lapis Niger, per
continuare da lì ad animare la vita della città.
Il posizionamento
della “pietra fondamentale”, il Lapis
Niger, correlato al sacrificio del Re, ottempera anche alla seconda delle
necessità prima ricordate, quella relativa al soggiogamento delle forze ctonie.
Nelle società tradizionali, come “in India – ricorda Mircea Eliade – si crede
che le divinità locali, infere, s’incarnino nel corpo dell’architetto durante
la costruzione della casa e poi spariscano: per questo sono necessari dei
sacrifici” [20]. È l’arte stessa
del costruire, del porre a fondamento, che mette inevitabilmente l’Uomo in
relazione con gli inferi, la cui
potenza va piegata a fini architettonici.
Il detto popolare
giustamente ricorda che “il Diavolo porta pietra”: per questo occorre che
quelle Forze vengano addomesticate ed esorcizzate, “sacrificando”, cioè morendo
a se stessi, uccidendo in qualche modo il “dragone” che è in noi. A tale
simbolismo fa probabilmente riferimento la leggenda ebraica che narra come
Salomone avesse costretto Asmodeo, uno dei principi infernali, a concorrere
all’edificazione del Tempio di Gerusalemme: “piegare” Asmodeo equivale a
sottomettere a scopi “costruttivi” energie che non vanno nè “rimosse” (nel
senso freudiano del termine) nè tantomeno cancellate.
Per altro verso un
qualunque edificio permane vitale solo finché quelle stesse forze restano
imbrigliate e sotto-messe; la pietra diventa allora il coperchio – il sigillo –
che non deve essere scoperchiato (se non ritualmente, nelle occasioni quali
quelle descritte dalle cerimonie del Mundus),
se non si vuole che il prorompere delle energie primeve (le forze del Caos)
compromettano la stabilità della struttura. Non a caso la leggenda medievale
racconta di come sette angeli proteggano una chiesa e altrettanti demoni
riposino sotto le fondamenta. La pietra diventa in questo contesto garanzia di
stabilità e di eternità per cui, molto opportunamente, i Vangeli ricordano che:
“…su questa pietra
edificherò la mia Chiesa e le
porte dell’inferno
non prevarranno su di essa” [21]
In India, prima che un solo mattone del nuovo edificio (o della nuova
città) venga collocato, l’astrologo indica quale deve essere il punto su cui va
posta la “pietra fondamentale”. Del pari, nel mito di Roma, sono degli aruspici
etruschi che, dopo aver interpretato il volo delle dodici aquile, indicano a
Romolo il luogo ove tracciare il solco e posizionare la prima pietra. Questa,
nella tradizione orientale, deve essere collocata al di sopra della testa del
Serpente (Drago) della Terra. Allora “il Maestro Muratore intaglia un picchetto
ricavato da un legno di acacia e con una noce di cocco lo infigge nel terreno sì
che penetri saldamente nella testa del Serpente. Una pietra di base è collocata
sopra il picchetto” [22].
Il luogo ove si “reperta” la testa del serpente è per definizione stessa
uno degli “ombelichi” del mondo, non collocabile topograficamente ma “identificabile
in ogni centro ben stabilito e consacrato.” [23]. Il “serpente” ha
qui una doppia valenza: da un lato costituisce “l’essere vitale” e
“sorreggitore” del Mondo, dall’altro assume un significato malefico in quanto
espressione di quelle stesse forze che, se scatenate, minacciano di distruggere
la “costruzione” e che vanno pertanto “fissate” dal paletto, cioè da un asse
che le ricongiunga e le pieghi ad un principio di ordine superiore, assicurando
all’intero progetto la necessaria “stabilità” [24].
Per questo le leggende popolari insistono nel sottolineare che, qualora
il “paletto” non sia stato adeguatamente fissato, i “movimenti” del serpente
rischiano di ingenerare “terremoti” e quindi di far “crollare” l’edificio.
Questo simbolismo, in accordo con la lezione biblica, ci ricorda che è il
Serpente a essere il “Principe di questo
mondo” (Princeps huius mundi) e che è
lui (o chi per lui) a impedire che
una costruzione abbia luogo, ovvero che il mondo si crei e duri.
Sotto questo profilo il Serpente torna ad
assumere le vesti del Caos primigenio ed è descritto nei Veda come il dormiente, il disteso, lo sprofondato nel sonno
informale. Indra (il dio indù
della Luce) lo fulmina (un attributo proprio della divinità condiviso, tra gli
altri, da Giove Ottimo Massimo) e ne taglia la testa, così come il picchetto di
acacia, penetrando dalla sommità, la spacca in due. Nell’atto di costruire, il
Muratore non fa che ripetere quel
gesto, dando inizio all’ordinamento
del caos. Per questo ogni atto di costruzione è imitazione dell’archetipo
cosmico della Creazione, e quindi teofania, ricapitolazione, hic et nunc, dell’atto primordiale.
Ogni costruzione
si svolge a immagine della prima costruzione, perché nulla può durare se non è
creato in conformità del disegno divino. Un atto che necessariamente deve avere
origine dal Centro del Mondo, là dove tutto ha avuto inizio. Ma la costruzione
non solo deve avere origine nel “centro”, ma deve cominciare altresì al “centro
del Tempo”, cioè “all’inizio dell’anno”, ovvero in primavera. È all’inizio
della primavera che le popolazioni italiche (portatrici di una Tradizione
propria e distinta rispetto a quella Etrusca) migravano nella penisola
stanziandosi nelle aree del centro sud (Sabini, Piceni, Sanniti, Irpini, etc..)
ed è in primavera che, in accordo con la leggenda, Romolo fonda Roma. È il 21
aprile del 753 a.C.
Romolo traccerà il
solco e nel momento di trascendere al cielo lascerà al suo posto il Lapis Niger. Questa è effettivamente il
fondamento della costruzione, la pietra posta in corrispondenza del Centro del
Mondo, l’Umbiliculus Urbi Romae, cui
restano sotto-messe le Forze distruttive, il cui “recupero” rituale avviene in
corrispondenza dell’apertura del Mundus.
Ed è su quella “pietra” che in definitiva riposa l’eternità stessa di Roma, la cui “vocazione” all’Imperium – alla guida del Mondo – veniva
preparata nel corso delle festività di agosto e riconfermata dalla celebrazione
dei riti connessi all’apertura del Mundus.
[2] René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi,
Milano, 1975.
[3] D. Sabbatucci, Op. Cit., p. 288.
[4] Nella tradizione
cinese la “capitale dell’Impero” si trova al “centro del Mondo” ove sorge un
Albero – denominato Legno Eretto – che riunisce il Mondo Sotterraneo (ctonio)
alla Terra e questa al Cielo. Tutto quanto sorge entro l’area sacra concentrica
a questo punto, a questo “centro”, costituisce una imago Mundi.
[5] Non è affatto
casuale che il luogo di culto ove sorgeva l’ara del dio Vulcano sorgesse presso
il Comitium , a pochi metri dall’Umbeliculus Romae. Il culto di Vulcano,
appartiene al ciclo arcaico e venne restaurato sotto Augusto Imperatore.
Vulcano era il padre mitico di Caeculus
(il fondatore di Preneste) e di Caco,
il gigante che Ercole ucciderà per poter istaurare un nuovo dominio Regale
sulle terre che vedranno sorgere Roma. Ma Vulcano era anche il padre “celeste”
di Servio Tullio, il VI° re di Roma.Il significato di tali discendenze può
essere interpretato in correlazione con il ciclo agrario: Vulcano sovrintende
alla funzione regale in terra italica, così come presiede alla trasformazione
del principale cereale, il farro, da seme ad alimento (“Re”). Infatti il farro
veniva “iniziato” ad essere raccolto in maggio, quando il Falmen Volcanalis, il massimo sacerdote di Vulcano, sacrificava
alla dea Maia, e matura a cereale in
agosto, quando si celebrano i Volcanalia.
Come Vulcano trasforma il farro in Re ad agosto, così ha innalzato alla
regalità Caco (le cui funzioni vengono assorbite da Ercole prima e Servio
Tullio dopo. Vulcano, in altre parole, forgia i “Re”. E agosto è il momento
dell’anno in cui gli attributi della regalità vengono “fusi” e “preparati” per
essere conferiti al momento in cui, a settembre, si celebrerà la festa di Giove
Ottimo Massimo, il supremo reggitore dei destini dell’Uomo. La riunificazione
delle Energie primordiali, consacrata dall’apertura del Mundus, unitamente alla festività dei Volcanalia, concorre a preparare Roma a quella funzione “regale”
che le è riservata. Non a caso sull’ara del Volcanale è stata rinvenuta una
scritta latina ritenuta tra le più antiche a noi pervenute (V°-IV° secolo
a.C.), di difficile interpretazione ma in cui è possibile capire che il
sacrificio e l’accesso all’ara fossero riservati ai Re e
implicassero/riguardassero specifiche funzioni attinenti, appunto, la
“regalità”, ovvero il potere temporale trasmesso per influenza divina. Analogo
significato di preparazione alla “regalità” avevano le altre principali
festività di agosto tra cui il Sol
Indiges (9 agosto), la
celebrazione di Ercole (12 agosto) e gli Opiconsivia
(25 agosto).
[6] Il greco
Erastotene (III° sec. A.C.) era assertore della sfericità della Terra e difese
con fermezza tale posizione a dispetto dell’opinione dominante che raffigurava
il pianeta come una struttura piatta o semisferica.
[7] Gli Etruschi
mettevano in essere un elaborato cerimoniale per edificare una nuova città.
“Nessuna città etrusca crebbe mai a casaccio, come accozzaglia progressivamente
crescente di abitazioni umane..la città fondata secondo le leggi sacrali
costituiva …una minuscola cellula del Tutto, armonicamente inserita in un
ordine governato e determinato dagli Dei” (W. Keller, La civiltà etrusca,
Garzanti, Milano, 1981, p. 85). Dopo aver delimitato uno spazio sacro a mezzo
di due assi ortogonali (quindi disposti a croce) che I Romani avrebbero in
seguito denominato Cardo (asse Nord-Sud) e Decumano (asse Est-Ovest), nel punto
centrale si procedeva a scavare una fossa che fungeva da legame tra il mondo
dei vivi e quello dei morti; questa veniva poi ricoperta da grandi lastre di
pietra e insieme alla “volta celeste di cui sembrava costituire la controparte,
fu chiamata mundus” (W. keller, Op.
Cit., p. 85). Tutt’intorno venivano quindi tracciati i confini secondo I riti
prescritti.
[8] Plutarco, Romulus., 11
[9] Ovidio, Fasti, 4, 820 e ssgg.
[10] Dionigi
d’Alicarnasso, I, 79.
[11] Cit. In D.
Sabbatucci, Op. Cit., p. 290 e ssgg.
[12] Il Devoto-Oli
(Dizionario della Lingua Italiana, Le Monnier, Firenze, 1991) acutamente
suggerisce come mondare si riferisca all’operazione di “liberare dagli elementi
nocivi, impuri o inutilizzabili”.
[13] Per questo veniva
anche chiamato “Mundus di Cerere”, cfr. Fest., 126, L.
[14] cit. In S.
Sabbatucci, Op. Cit.,p. 293.
[15] Il Comitium trarrebbe origine dall’incontro
pacificatorio (“adunanza”, “riunione”) avvenuto tra Romolo e Tito Tazio, re dei
Sabini, all’indomani della guerra scoppiata in conseguenza del “ratto delle
sabine”.
[16] Salvatore Spoto, Roma Porta d’Oriente, Atanor, Roma,
1997, p. 19 e ssgg.
[17] Il nero è
l’attributo di Saturno, il Re mitico dell’età dell’Oro, in un momento in cui la
molteplicità si trovava ancora inespressa nell’Unità di tutte le Forme Viventi.
[18] Se al di sotto della Pietra regna la morte,
nondimeno al di sopra “vive” la Vita, che anzi nasce, “sgorga” dalla pietra
stessa. Il Dio della Luce Mitra nasce da una pietra ed è tramite la pietra filosofale che gli alchimisti
ottengono la rigenerazione vitale. Parimenti nella misteriosofia cinese si
ricorda come Yu il Grande ed il proprio figlio Ch’I nascano da una pietra che
si apre a nord.
[19] M. Eliade, I
Riti del Costruire, Jaca Book, Milano,
[20] M. Eliade, , Op. Cit., p. 59.
[21] Matteo, XVI, 18.
[22] Mircea Eliade, Op. Cit., p. 58.
[23] Ananada Coomaraswamy, Symbolism of the Dome, in: The Indian
Historical Quaterly, XIV, 1938, p. 20.
[24] Secondo numerose
mitologie, soprattutto vive nella cultura mesopotamica, sono gli Dei a creare
la fortezza, il luogo stabile, protetto dalle influenze ne-faste dell’esterno,
sia che esse provengano dal basso, sia che muovano dalla realtà limitrofa al
perimetro dell’edificio. La creazione del luogo stabile comporta per questo
l’allestimento di due presidi: a) il posizionamento della “pietra fondamentale”
e b) la delimitazione del solco (circolare o quadrato) che delimita l’area
“consacrata” della città (o dell’edificio) dallo spazio profano. Tale atto
viene ripetuto a livello del microcosmo dall’iniziato quando, sub specie
interioritatis, si difende spiritualmente innalzando il proprio Tempio
interiore. Ogni pratica ascetica/misteriosofica “inizia” con l’insediamento e
la fissazione su una posizione corporale (la pratica dello Yoga ne è un esempio
eloquente) che segna e significa il passaggio da una condizione profana ad una conforme al piano di salvezza divino.